Governo
In difesa di Luigi Zanda
La proposta del senatore Pd Luigi Zanda, neo-tesoriere della segreteria di Nicola Zingaretti, di aumentare lo stipendio dei deputati e senatori, allineandolo ai parlamentari europei, pone l’accento su un argomento cruciale per la vita democratica del Paese.
Tralasciando il fatto che tale proposta è stata banalizzata dalla maggioranza dei media, in quanto non si tratta di un mero aumento dello stipendio in senso stretto, qui preme considerare la motivazione più profonda di questa proposta: la necessità di rafforzare incentivare gli eletti al dare il proprio contributo finanziario al proprio partito di riferimento. Di fatti, dopo l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti, questi ultimi hanno estrema difficoltà a reperire i fondi per poter assicurare un sano funzionamento della loro struttura e, di conseguenza, della sana vita democratica del Paese.
Coloro che hanno festeggiato, all’indomani dell’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti – dapprima sospinto dal Movimento 5 Stelle e da ultimo perfezionata in Parlamento proprio dal Partito Democratico – hanno sulla coscienza questa deriva populista che ha messo in pericolo la libera partecipazione alla cosa pubblica da parte di coloro che non hanno nel proprio portafoglio i fondi necessari a finanziarsi l’attività politica. Perché, in mancanza del finanziamento pubblico ai partiti le alternative sono per lo più riconducibili alla creazione di una fondazione che per legge non ha l’obbligo di pubblicare il proprio bilancio, né tanto meno di esibire un elenco dei propri finanziatori, in virtù della legge sulla privacy. Le fondazioni sono in linea di massima riconducibili a singoli esponenti politici e non all’interezza del partito di appartenenza. Ragione per la quale, si rafforza una vita politica animata, più che dai partiti, da singole individualità. E così si spiega, tra le altre cose, l’estrema personalizzazione del dibattito politico. Di fondo, chi riesce a raccogliere più fondi a titolo personale ha maggiori possibilità di scalare il proprio partito di riferimento o di farsi candidare. Ciò comporta, come abbiamo già più volte visto negli ultimi anni, che la leadership di un esponente nel proprio partito è fondata più sul proprio potere economico-finanziario che su una convergenza di idee e programmi con le varie anime del partito o del movimento di riferimento. Qualcuno dirà che negli Stati Unit d’America ciò accade regolarmente. In parte è vero. Però, al di là delle sensibili differenze culturali e storiche che differenziano l’Italia dagli Usa, il candidato alla Presidenza degli Stati Uniti d’America – ma anche al Congresso – è tenuto a pubblicare la lista dei propri finanziatori. Piccoli e grandi. È legittimo farsi finanziare da chicchessia, ma allo stesso tempo è corretto dare la possibilità agli elettori di sapere chi ti sta finanziando. Ad oggi in Italia abbiamo un sistema alquanto opaco circa la regolamentazione dell’apporto delle lobby nella politica. Intendiamoci, qui non si vuole criminalizzare l’attività di lobbying. Questa in una sana democrazia è sacrosanta. È necessario però regolamentare il loro apporto. Soprattutto laddove vi è il fondato sospetto che a finanziare la politica possano essere espressioni di potenze estere.
Cosa c’entra allora la proposta di Luigi Zanda con tutto ciò? I partiti oggi si sostengono, al netto dei finanziamenti più o meno chiari di lobby alle fondazioni – e associazioni – dei singoli esponenti, con il 2 per mille della dichiarazione dei redditi dei singoli cittadini e con il contributo degli eletti nelle varie amministrazioni, dal Parlamento sino al più piccolo consiglio municipale. Questo contributo, seppur decretato per mezzo di un regolamento interno a ciascun partito o movimento, si basa in realtà su un rispetto volontario da parte degli eletti. Nel senso che, laddove l’eletto non dovesse contribuire, nella peggiore delle ipotesi, andrebbe incontro all’espulsione dal proprio partito o movimento. Lo abbiamo visto con il Movimento 5 Stelle, con i vari parlamentari che fingevano di fare bonifici per poi cancellarli, oppure con la lista dei deputati morosi del Partito Democratico. In uno e nell’altro caso, nessun parlamentare o consigliere municipale è stato mai espulso. Quindi, i partiti e i movimenti si danno delle regole, che però possono essere tranquillamente disattese, senza alcuna conseguenza.
La proposta di Luigi Zanda prendeva atto di tutto ciò e ha voluto aumentare l’indennità dei parlamentari per stimolare loro a prestare fede al patto di contribuire alla vita politica del proprio partito. Un’aspirina si direbbe. È chiaro che la soluzione a tutto ciò sarebbe la reintroduzione del finanziamento pubblico ai partiti. Anche per dare maggiore corpo all’articolo 49 della nostra Costituzione che recita: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. In mancanza di una legge che reintroduca il finanziamento pubblico ai partiti, seppur tale scelta oggi è condannata dal populismo che attraversa tutto l’arco costituzionale, questo diritto appare fortemente indebolito.
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