Governo
Il problema non è la “vecchia politica” che non molla, ma la nuova che non c’è
Alla fine avremo un governo.
Per durare dovrà parlare di futuro. Per avere un’idea di futuro, al netto delle soluzioni da adottare per i problemi ordinari, dovrà assumere una visione per domani che non ha risposte nella visione sovranista della politica. Per esempio:
- che cosa sarà la società, domani nel tempo del lavoro 4.0? Ci riguarda o pensiamo di cavalcela con il solito sistema del dumping interno?
- Che cosa significa assumere gli obiettivi di sviluppo verso il 2030 quando dovremo essere a norma sull’economia sostenibile, con l’energia rinnovabile, avendo abbassato (possibilmente azzerato) lo spreco?
- Che cosa è una politica che pratichi innovazione e non lasci indietro nessuno?
- Come, con quali politiche e decisioni, si affronta la trasformazione (lavorativa, occupazionale, ma anche abitativa) degli spazi urbani?
La scadenza per dare forma e pratica agli obiettivi di uno sviluppo sostenibile è il 2030. Quella scdenza ci obbliga a decisioni e avvio di pratiche che non è possibile posticipare al 2029 o rinviare alla prossima legislatura. Soprattutto sono pratiche che indicano un passaggio condizionato, con un varco stretto e con gli stipiti duri.
I programmi con cui siamo andati alle elezioni non si sono misurati con queste questioni, perché il tema non è mai stato il futuro, ma la presentazione di ricette per rimediare a un passato che non si condivideva. Per questo l’atto da compiere prima di tutto sarà venir meno alle promesse fatte.
Dire che gli stipiti sono duri e non allargabili significa prendere in carica le condizioni per avere un futuro. E dunque tradire ciò che si è promesso. Non perché qualcuno ti obbliga , bensì perché le promesse non erano adeguate alla realtà. E non lo erano perché la realtà da raccontare doveva parlare di futuro da costruire non di passato da rimediare.
Ma non è ciò che abbiamo davanti. Quando a lungo si è stati o ci si è presentati come opposizione, come «radicalmente altri» rispetto al luogo comune del Paese, o come il vero e autentico carattere del Paese beffato e tradito, insomma quanto a lungo si è applaudito alla Caporetto della politica, quando poi arriva Vittorio Veneto, si è sempre in imbarazzo.
Se alla fine ci sarà un governo del Presidente, non sarà responsabilità della «vecchia politica che non molla», ma della nuova che non c’è.
L’effetto, è facile prevedere, sarà un innalzamento del risentimento e della convinzione complottista, oppure il mormorio degli scontenti che si sentiranno beffati e traditi. Probabilmente, come è accaduto cento anni fa, ci saranno molti che grideranno alla «vittoria mutilata».
La verità, sempre difficile da digerire, è che per costruire futuro, occorre pensare e progettare futuro, e non rimpiangere passato o inventarsi un’ipotesi di futuro che non prende le misure con le sfide del presente.
IL PD ha perso, ha detto di recente Dino Amenduni, l’ideatore della campagna di comunicazione per conto del PD, perché mancava la speranza.
Non so se la speranza sia un ingrediente fondamentale, ma certo lo è assumere il futuro come sfida. Quando il futuro si racconta non come progetto per domani misurandosi con gli stipiti duri delle condizioni per realizzarlo, ma sfogliando il libro dei sogni, pensando di essere i creatori di un futuro in cui non contano le condizioni, i vincoli, i patti per la sostenibilità delle scelte, allora l’effetto è l’impossibilità di fare.
La realtà manda segnali incontrovertibili a chi non la vuole ascoltare e fa conto che di essa si possa fare a meno. Quando questo accade, l’effetto è un viaggio nel «paese dei balocchi». Un viaggio a tempo limitato, come sappiamo, da cui si esce trasformati, ma non nella direzione auspicata.
Gli stipiti sono duri.
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