Governo
Il terzo tempo della politica (e forse del PD)
La giornata di voto per le elezioni politiche dello scorso 4 marzo ha restituito un’immagine del paese che, solo a chi non vive quotidianamente nel mondo “reale”, può destare qualche stupore. Un’Italia frazionata, con un sostanziale aumento di consenso delle forze politiche antipartitiche (nel senso tradizionale del termine e poco importa che anch’esse si inseriscano, in parlamento, in un quadro di democrazia rappresentativa basata sul sistema dei partiti), una netta crisi della sinistra (e dei partiti più “tradizionali”) e – dice qualcuno – della complessità. In realtà il dato di complessità è vivo e gode di ottima salute: i blocchi maggiori rappresentati in parlamento infatti appartengono a tradizioni profondamente diverse e, in misura ancora maggiore, quelli dei cosiddetti partiti da +/- 3%.
La complessità che è andata in crisi è – se mai – quella interna ai partiti stessi, quella legata al dibattito novecentesco, fatto di mozioni, correnti, tesi e antitesi, messaggi elaborati attraverso formule comunicative ampiamente articolate. A questo “giro” vince il messaggio chiaro, univoco e diretto. Vince, d’altra parte, anche una certa radicalità: lo schieramento di centro destra – nella sua parte più moderata – perde di consenso in favore della Lega, più netta e radicale nella proposta, mentre il centro sinistra viene “abbandonato” in favore di scelte altrettanto radicali: in alcune fasce d’età la sinistra (Pap e Leu), in altre il Movimento 5stelle e la stessa Lega. Ancora una volta questo non stupisce: il PD è nato come aggregato di diverse anime, da quelle di sinistra a quelle del centro moderato. Radicalizzandosi il voto sono semplicemente, in parte, tornate a casa cercando, dato assolutamente contemporaneo, uno schieramento politico di riferimento con un messaggio ben identificabile, una leadership definita, un rapporto diretto con l’elettorato (vero o costruito a tavolino che sia).
La campagna elettorale d’altra parte è stata segnata da un netto calo della partecipazione e, per quanto riguarda in particolare gli schieramenti che hanno avuto un buon risultato, un aumento della militanza. Se i comizi erano già spariti da qualche tornata dalle nostre piazze, questa volta sono venuti meno i cartelli sulle plance, i volantinaggi a tappeto (e qui si potrebbe aprire una riflessione sulla sostenibilità dei costi della politica in un contesto che ha tagliato il finanziamento pubblico ai partiti, ma non è il momento), ma soprattutto gli eventi di confronto fra le diverse posizioni. Se si escludono i soliti dibattiti televisivi dei “big”, il confronto nei territori è stato scarso e poco partecipato. Certo non sono mancati i volontari ai banchetti, così come i gruppi di supporto ai singoli candidati, ma si è trattato di attività di militanza a fine di propaganda, che ha un carattere molto diverso dalla partecipazione alla quale, sempre facendo riferimento alla tradizione del Novecento, eravamo abituati. Lo stesso PD, che per storia e tradizione, ha sempre basato il suo lavoro sulla partecipazione della base (sezioni o circoli che si chiamassero), ha strutturato con formule diverse la sua campagna: i volontari registrati sono stati infatti una delle novità di queste elezioni 2018. La sensazione insomma è che si sia di fronte a un cambiamento epocale e non semplicemente ad un dato elettorale transitorio: il “fare politica” sta cambiando pelle.
D’altra parte cosa potevamo attenderci? In un paese che ancora chiama “crisi” il mutamento economico e sociale in atto e che – nelle sue più alte rappresentanze politiche, istituzionali e d’opinione – pensa che da questa crisi si possa “uscire”, non rendendosi conto che si è trattato di un processo irreversibile che richiede nuovi paramentri interpretativi e di proposta, è chiaro che anche la politica, prima o poi, sarebbe stata toccata. Le persone, che vivono davvero la realtà, ci sono arrivate prima e lo hanno comunicato col voto.
In questo contesto s’inserisce il grande dibattito generatosi intorno al PD, alla sua sconfitta, alla reazione del leader Matteo Renzi, alle reazioni della base e delle varie “anime” interne. Segno che, pur nella profonda crisi, il Partito Democratico è ancora un tema all’ordine del giorno e che, potenzialmente, potrebbe amministrare, invece che subire, questo cambiamento.
Tuttavia alcune cose rischiano d’impedire il processo e – mi dispiace per gli amanti delle fazioni e delle decapitazioni di piazza post elettorali – nessuna di queste riguarda un soggetto specifico. Sarebbe troppo bello, sarebbe troppo facile.
I 5 equivoci che potrebbero impedire al PD di elaborare la sconfitta e di comprendere davvero il cambiamento (andando a ritroso e in ordine schematico con un tentativo di leggerezza).
Primo equivoco: Ci hanno dato mandato di stare in minoranza. Quante volte nell’ultima settimana abbiamo letto questa frase? Lo stesso Matteo Renzi, dopo aver commentato la sconfitta, ha dichiarato che non sarebbe salito al colle, ma sarebbe andato a sciare, perché l’elettorato aveva espresso la sua opinione: il PD deve stare in minoranza. Attenzione: l’elettorato del PD non ha detto questo. L’elettorato del PD, votando PD, ha dato mandato al partito di rappresentare delle istanze di programma che – negli auspici dei votanti – dovevano essere di maggioranza e potenzialmente realizzabili per il bene (dal loro punto di vista) del Paese. Il mandato del PD a stare in minoranza lo hanno dato gli elettori degli altri partiti, che hanno creduto di più in altre proposte. Questo, ovviamente, a meno che non si viva la sindrome dell’amante tradito, che pensa che tutti i voti “non PD” siano motivati da una fuga (Per insoddisfazione? Per vedentta? Per antipatia nei confronti di leader e candidati?) dal partito. Ottimo modo per guardare alle proprie nevrosi e non ai problemi dei propri elettori. L’elettorato PD ha dato mandato al PD di amministrare nel modo migliore possibile un voto. Alzare le mani e chiamarsi fuori quindi non ha alcun senso, meno che mai di rispetto.
Secondo equivoco: occorre fare una consultazione interna per decidere se e con chi fare delle alleanze. In questa fase non occorre. La consultazione, nei partiti, si ha al congresso e nell’eventuale dibattito pre elettorale. Il PD si è presetato con una coalizione, decisa in questa fase preliminare, e mai ha affrontato il tema di eventuali alleanze. Meno che mai però lo può fare ora con strumenti, come i dibattiti sui social o le consultazioni d’opinione per “sentito dire” che lasciano il tempo che trovano. Per dieci persone che si esprimono pro o contro un’alleanza, altre dieci tacciono e scuotono la testa.
Terzo equivoco: i 5Stelle hanno vinto, facciano loro il governo. Il sistema di governo Italiano (repubblica parlamentare) prevede che il governo si costituito dalle rappresentanze parlamentari. Quindi, potenzialmente, anche dal PD, così come, potenzialmente, da ogni componente eletta, fosse anche al 3,1%. Non vale il gioco della somma a tavolino per la banale ragione che un governo si deve costruire su una base di intenti programmatici e di percorsi condivisi. Altrimenti se si trattasse di far la somma dei due partiti con il maggior numero di voti potrebbero uscire davvero buffi compagni di letto. A questo servono le consultazioni al Colle. Partecipare alle consultazioni e valutare le opzioni non è tradire un mandato, ma agire responsabilmente. Anche qualora si dicesse no a qualsiasi alleanza di governo.
Quarto equivoco: facciamo subito un congresso e risolviamo il problema con una nuova leadership. Il problema del PD non è uccidere un papa per farne un altro, ma costruire un percorso che porti a una gestione diversa (non migliore, attenzione, né rottamante) del partito. Il tema non è “cambiare il leader”, ma – semmai – cercare di capire in quale momento gli schemi sono saltati e tutto il gruppo dirigente ha smesso – per parafrasare il titolo di un celebre saggio – di “dire la verità al principe”. Renzi può portare su di sé tutte le colpe ascritte al PD, ma non meno il resto della classe dirigente, non meno i metodi utilizzati. Il che significa che se si elimina il sintomo e non la causa profonda a breve si avrà un nuovo sintomo. Punto e a capo.
Quinto e finale equivoco: non esiste alcun problema nell’avere, nella stessa figura, il segretario di partito e il premier/potenziale premier. Sorti politiche così strettamente legate fanno male al partito. Non solo infatti si tratta di due “mestieri” diversi – chi governa è bene faccia scelte nette, si spinga anche ad assumere responsabilità non sempre ecumeniche, mentre chi fa il segretario di partito deve saper mediare, per garantire un’elaborazione complessa e non appiattita sul “pro” o “contro” e, allo stesso tempo, proteggere il ruolo di governo da normali dinamiche interne di partito che possono però non essere sempre “funzionali” – ma se l’unione dei ruoli garanisce totale concordia (con enormi limiti) in una fase positiva di maggioranza, in caso di crisi trascina tutto ugualmente a terra.
Il PD – in fondo – rispecchia molto bene la situazione complessiva della politica italiana e, a volerlo considerare un piccolo laboratorio, proprio a partire dalla competenza con cui affronterà questa fase si potrà capire se amministrare la complessità in Italia è ancora qualcosa di possibile o se anche la sinistra, pur di non modificare il suo approccio di metodo all’agire politico, rinuncerà alla partecipazione in favore di una militanza sempre più simile alla tifoseria. Non ci resta forse che augurare buon dopopartita a tutti. Speriamo sia un terzo tempo.
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