Governo
Il premierato di Giorgia Meloni: una post-democrazia per la Terza Repubblica?
Con il via libera del Senato – 109 sì, 77 no, 1 astenuto -, il premierato voluto da Giorgia Meloni e dall’attuale maggioranza ha superato il primo scoglio. Insieme al disegno di legge sull’autonomia differenziata promosso dal Ministro per gli Affari Regionali e le Autonomie, il leghista Roberto Calderoli (e appena approvato dalla Camera dei Deputati), questa riforma costituzionale – la “madre di tutte le riforme” – palesa l’obiettivo inconfessabile del Governo in carica: spegnere senza troppi clamori la vitalità istituzionale del Parlamento, ridurlo a docile organo di ratifica di decisioni assunte altrove, ora a Palazzo Chigi, ora nei capoluoghi di Regione, ora a Washington. Stando al testo, il Presidente del Consiglio verrebbe eletto a suffragio universale e diretto per 5 anni, una legittimazione popolare senza eguali, e per due mandati consecutivi al massimo. Non è ancora chiaro quale sarà il sistema elettorale associato a questa atipica svolta pseudo-presidenzialistica, ma dobbiamo aspettarci garanzie di governabilità e premi di maggioranza cospicui malgrado l’astensionismo crescente. Un passo avanti verso l’accentramento e la produttività del potere politico, due passi indietro su partecipazione e rappresentatività.
Contro il voto di Palazzo Madama, sono subito scesi in piazza i cantori dell’antifascismo, i difensori dei Padri e della Costituzione, gli esponenti più in vista dell’opposizione retorico-televisiva al Governo Meloni. Il che è perfettamente banale e al tempo stesso sorprendente. Banale perché, come dimostrato dall’effimera parabola renziana, la “grande riforma” già ipotizzata da Bettino Craxi nel lontano 1979 può rivelarsi una trappola mortale per chi la propone. Sorprendente perché, appena quattro anni fa, i due principali schieramenti oggi ostili al premierato, il M5S e il Partito Democratico, diedero indicazione di votare sì al referendum che sancì la riduzione di un terzo dei componenti del Parlamento: proprio come Fratelli d’Italia. Quest’ultimo inquietante episodio, emblematico ma caduto nell’oblio, dovrebbe indurre a riflessioni che vadano oltre la critica stantia del fascismo eterno o la denuncia della “democrazia afascista” teorizzata con finezza da Nadia Urbinati e Gabriele Pedullà. Il premierato, infatti, non è che l’epilogo di un’involuzione storico-politica che ha riguardato e riguarda non solo le destre e le loro élites, ma l’intero arco costituzionale, la nostra società liquida, la nostra cultura senza dubbi.
In realtà, l’autoritario rafforzamento dell’Esecutivo a scapito del Legislativo formalizzerebbe la crisi del parlamentarismo italiano già in atto da tempo e, con essa, l’arretramento della componente partecipativa, giacobina delle nostre pur elitarie democrazie liberali. Come noto, la Seconda Repubblica si è aperta con la liquidazione per via giudiziaria dei partiti e delle oligarchie della Prima. Due le eredità di questo spettacolare collasso. In primo luogo, la degenerazione della berlingueriana questione morale nelle sinistre e post-sinistre, divenute meno marxiste e più kantiane, ovvero giustizialiste (come spiegare altrimenti il M5S?). In secondo luogo, la personalizzazione della politica democratica e la ricerca di restauratori di un ordine non più assicurato da strutture partitiche organizzate e saldamente radicate nei territori. La Seconda Repubblica, che non per nulla debuttò con l’egemonia berlusconiana, è stata appunto un infelice susseguirsi di populistici “capi carismatici”, come li definirebbe Max Weber, in balìa però di una carta costituzionale che consentiva al Parlamento di vanificare i loro piani ogni volta che pochi astuti (o corrotti) manovratori riuscivano ad incrinare le loro fragili coalizioni. Il premierato suggerito da Meloni è anzitutto il tentativo di risolvere questa contraddizione tra nomos e praxis, adeguando alla politica dei signori la Costituzione dei partiti. Ne deriverebbe una Terza Repubblica rigorosamente post-democratica, dove, parafrasando Jean-Jacques Rousseau, il cittadino sarebbe libero solo di scegliere periodicamente a quale capobastone affidarsi e dove il voto del singolo sarebbe, come lo è anche adesso, ulteriormente depotenziato dai flussi incontrollati del capitalismo globale, dal ricorso abusato al governo della tecnica, dalla subordinazione strategica dell’Unione Europea agli Stati Uniti, dalla resilienza dei paradigmi economici e politici neoliberisti.
Contro la proposta bonapartista e plebiscitaria di Meloni, specchio dei caratteri profondi della vita politica nazionale, bisognerebbe almeno rilanciare il parlamentarismo democratico come mezzo più appropriato per non sacrificare il demos al kratos e ridare stabilità al corpo politico. Ma questo non significherebbe affatto conservare lo status quo, bensì riformare pragmaticamente la politica parlamentare, ad esempio, tramite la sfiducia costruttiva, l’innalzamento delle soglie di sbarramento, la ricostituzione del nesso territoriale tra rappresentanti e rappresentati, l’introduzione delle preferenze, l’educazione civica. Se Meloni sta raggiungendo i suoi scopi indisturbata, è perché finora non è pervenuto un progetto alternativo ancorato alla lettura socialista della democrazia di un Carlo Rosselli. Qui risiede il problema più grave: per il momento, la riforma del premierato non ha neanche un vero oppositore. Solo inconsapevoli complici.
Devi fare login per commentare
Accedi