Governo

Il «Plebiscito Costituzionale». Perché Renzi non è de Gaulle

13 Gennaio 2016

Matteo Renzi, quando ha esplicitamente affermato che il suo fallimento coinciderebbe con la fine della sua esperienza politica, ha voluto fare del referendum costituzionale una scelta sulla sua persona.  Per questo può essere utilizzato il pur ambiguo concetto di “plebiscito”, non solo per il suo generico richiamo ad un “appello al popolo” (un appello che è centrale nella narrazione del nostro Presidente del Consiglio), ma anche perché tale concetto si connota, rispetto a quello di referendum, che è caratterizzato da “ordinarietà”, per la sua natura “eccezionale”. Ecco, possiamo dire che Renzi ha voluto trasformare una consultazione ordinaria, ovvero un referendum scaturente dall’eventuale richiesta di uno tra i soggetti previsti (500mila elettori, cinque consigli regionali, 1/5 di parlamentari), su alcuni cambiamenti della Costituzione in una consultazione straordinaria, dalla quale deriverebbe una conseguenza non legata al referendum costituzionale in quanto tale, ovvero la sua permanenza o meno alla guida del governo.

Pericolosamente antidemocratico? No, e certo non pare esserlo in questo caso. Ma alcune puntualizzazioni paiono comunque necessarie. Innanzitutto, l’elemento dell’eccezionalità, di cui si è detto:  esso emerge da un uso dell’art. 138 che non corrisponde alle intenzioni dei costituenti, per i quali l’eventuale referendum (possibile se non si raggiungono i 2/3 nella seconda votazione nelle due camere,) doveva costituire uno strumento a disposizione dell’opposizione, non del governo, come hanno recentemente ricordato Gianfranco Pasquino e Ugo De Siervo e come fu espressamente enunciato nella Seconda Sottocommissione della Costituente, dove si fece espresso riferimento alla tutela dei diritti della minoranza.  La devianza rispetto alle intenzioni dei costituenti già si ebbe nel 2001 (ma non nel 2006), quando fu la maggioranza di centrosinistra che aveva votato la riforma del Titolo V a richiedere a sua volta il referendum. Il che non toglie che la devianza persista e sussista anche oggi.  Ciò sia detto non per gridare alla violazione della “Costituzione più bella del mondo”, che tale non è,  ma per sottolineare che il modo di procedere che si intende adottare non è scontato e “normale” come taluni vorrebbero far credere: trattasi di una forzatura rispetto all’originario spirito costituente con evidenti scopi di legittimazione politica che prescindono dalla materia costituzionale. Niente di male, forse, ma così è.

Ma rispetto al 2001 vi è un significativo elemento di differenziazione, che ci introduce al secondo punto,  ovvero il fatto che il referendum così “interpretato”, oggi – a differenza di allora – è funzionale alla legittimazione di un potere personalizzato, quello, appunto, di Matteo Renzi. Non a caso si è letto in questo periodo di un Renzi come de Gaulle, come il de Gaulle del 1962 che introdusse nella Costituzione del 1958 l’elezione diretta del Presidente attraverso lo strumento referendario e al suo esito subordinò la sua permanenza all’Eliseo.  Ma anche qui sono necessarie precisazioni che ci fanno comprendere che Renzi non è, no, proprio non è, de Gaulle.  Anche allora vi fu una originale interpretazione, anzi, una vera e propria forzatura, dal momento che il Generale non fece ricorso alla procedura di revisione prevista dalla Costituzione, ma, con una modalità molto opinabile e all’epoca fortemente contestata,  al suo potere di indire un referendum (art. 11) su varie materie, tra le quali l’organizzazione dei pubblici poteri. Un de Gaulle ben più “garibaldino”, diciamo, di Renzi.

Tuttavia, la messa in discussione davanti al popolo del proprio potere e la materia costituzionale non sono elementi sufficienti per affermare che le due situazioni sono somiglianti. E ciò perché la “personalizzazione” che è in gioco è ben diversa.  Anzi, è dubbio che si possa parlare per il caso di de Gaulle di “personalizzazione” con il significato che diamo oggi al concetto. Mi spiego.  De Gaulle incarnava “una certa idea della Francia” in virtù della sua storia, del suo ruolo come capo della Resistenza e quindi di “risolutore” della crisi di decolonizzazione che aveva messo in pericolo la stessa democrazia francese.  Da un lato. Dall’altro, egli rischiava il proprio ruolo politico per portare a termine il disegno costituzionale come da lui concepito e in buona parte confluito nella carta del ’58. De Gaulle riteneva fosse necessaria una legittimazione diretta della figura presidenziale una volta che lui, che già era stato legittimato dalla Storia e non aveva bisogno di ulteriori legittimazioni, fosse uscito di scena. Questo, esplicitamente, affermò nel suo intervento televisivo davanti ai francesi. In altre parole, il Generale domandò un voto popolare non tanto per continuare la sua azione politica, quanto per far procedere secondo la sua visione le istituzioni della V Repubblica, per consolidarle. Chiedeva un voto popolare, dunque, soprattutto per porre un suggello alla sua opera costituzionale; la sua “persona”, dunque, diveniva simbolo di qualcosa d’altro, di un modello di Francia, un modello preciso che aveva ben dettagliato in più occasioni: disegno e motivazioni.  Un modello che doveva continuare dopo di lui.

Nel caso nostro, di oggi, in Italia, non siamo di fronte ad alcun modello, se non a una generica e non precisata idea di rafforzamento dell’esecutivo. Renzi si mette in gioco per una riforma molto parziale, che investe il sistema bicamerale e il decentramento, ma non la forma di governo, che non ha voluto, o saputo, o entrambe le cose, mettere in discussione. Una riforma che renderà possibile la formazione dei governi senza il sostegno del Senato e porrà meno vincoli al processo legislativo, ma così ancora indeterminata e bizantina che è difficile immaginare quali esiti avrà, come è difficile immaginare se la riforma del titolo V davvero semplificherà i rapporti tra gli enti, cosa di cui alcuni costituzionalisti dubitano.  La posta in gioco è dunque molto più indeterminata e modesta e per questo di per sé non così rilevante da giustificare un tale gesto “eroico” come quello di dimissioni in caso di sconfitta.  E, infatti, la partita è un’altra. Il Presidente del Consiglio chiede soprattutto una legittimazione per sé, non per una diversa Repubblica che non ha mai saputo definire.  Renzi è arrivato a Palazzo Chigi attraverso un’operazione interna al suo partito e da allora è sempre alla ricerca di legittimazioni popolari, che in qualche modo costruisce ad hoc. Come il famoso 40% delle elezioni europee, trasformatosi in voto legittimante dopo che il risultato era stato raggiunto. Oggi ha scelto il referendum costituzionale, consapevole che le elezioni amministrative che lo precederanno potrebbero in parte sconfessarlo e dunque decidendo che quelle, per la sua legittimazione, “non contano”.

In questo contesto siamo di fronte, dunque,  ad una “personalizzazione” diversa da quella di de Gaulle; qui, cioè, si utilizzano la riforma costituzionale, nella modesta versione di cui si è detto, e quindi il voto popolare, come strumenti di rafforzamento non di un assetto, quanto di un leader-persona. Il quale leader ha ben poca “storia” da portare in dote e con un po’ di riforme patchwork si presenta agli italiani chiedendo soprattutto una fiducia sulle sue doti personali e su quello che ancora promette di fare, su una storia ancora da scrivere (a meno che non ci si illuda che quello fatto fino ad oggi corrisponda a vere e proprie riforme di sistema) e che soprattutto non si dice come si vuole scrivere (ad esempio in merito alla forma di governo auspicata o alla natura del nostro incerto decentramento). In questo senso la personalizzazione è più marcata e soprattutto di qualità diversa, nel senso che rimane confinata alla persona vera e propria e stenta a divenire rappresentativa di qualcosa di più ampio, che vada al di là del leader. Charles de Gaulle stava per la Francia; Matteo Renzi sta per Matteo Renzi.

In questo, si badi, Renzi appare rappresentativo delle leadership contemporanee. Bernard Manin trattando della «democrazia del pubblico» ha individuato nel leader un fiduciario, che trasmette con la propria immagine le qualità che gli elettori chiedono a chi deve guidarli. Solo che lo stesso Manin non si è forse interrogato abbastanza su quanto quell’immagine possa essere strumento fragile per una democrazia quando non è ancorata a solide visioni e progetti e inserita in altrettanto solidi sistemi. Il tema è ampio. Quel che ci interessa notare, in conclusione, è che il nostro Presidente del Consiglio è non solo rappresentativo di questa modalità contemporanea della leadership, ma probabilmente, con una narrazione auto-agiografica incessante e un’impressionante ubiquità mediatica, la esaspera. Ma così facendo, gesta, come quelle gaulliane, che in un contesto diverso assumevano ben altra pregnanza, finiscono per apparire solo episodi di una storia, raccontata e interpretata, che non assumono alcun valore fondante, episodi di una serie televisiva nello stile della soap opera, dove i colpi di scena tali non sono e sono presto dimenticati per appassionarsi alla puntata successiva.

 

P.S. Se proprio si volesse fare un paragone più calzante, quello sarebbe con il de Gaulle del ’69, che si dimise dopo il fallimento di un referendum dalla minore portata. Ma quel referendum fu il tentativo di ri-legittimarsi in una fase di consenso calante, in particolare dopo i fatti del ’68, e di presa di distanza di importanti alleati, come Giscard d’Estaing, e di uno storico “collaboratore” come Georges Pompidou. La visione si era appannata e il Generale fu punito. Ma all’epoca le visioni contavano ancora qualcosa.

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