Governo
Perchè alla destra piace ripetere il passato?
“Ma non venite a raccontarci: noi
Finiremo di essere disoccupati solo
Nel momento che voi
Sarete rimasti senza lavoro”
La destra di governo sembra stia invocando una rivoluzione culturale per sostenere e diffondere i sui valori e i suoi principi. Per chi crede nella democrazia dell’alternanza, un rinnovamento potrebbe essere salutare per arricchire il dibattito pubblico nella logica del ricambio alla guida del Pase. In un sistema politico maturo, l’avvicendamento tra le forze progressiste e forze conservatici è il sale della democrazia parlamentare.
Volendo giudicare i valori e i principi che la destra sociale che Giorgia Meloni intende promuovere considerando la prima manovra economica del suo governo, mi pare che stia emergendo la volontà di tutelare gli interessi del ceto medio-alto, all’insegna di un neoliberismo pragmatico e populista. Ne è riprova la progressiva retromarcia sull’uso del contante per i piccoli pagamenti, il “perdono fiscale” per i contribuenti che non hanno potuto o voluto versare le tasse a causa della pandemia, le pensioni minime fissate a 600 euro al mese contro i mille promessi da Berlusconi in campagna elettorale. E soprattutto, l’intenzione dichiarata di ridurre o abolire il Reddito di cittadinanza, provvedimento introdotto dai Cinque Stelle, ingaggiando così quella che è stata chiamata “la guerra dei poveri”.
Ma la riserva principale della rivoluzione vagheggiata dalla destra è quella che dovrebbe attuarsi sul piano culturale, laddove emerge uno spirito di revanche, di rivalsa o di vendetta, nei confronti di una sinistra accusata di aver imposto per troppo tempo la propria egemonia. Secondo la narrazione della destra, la sinistra ha raccontato la sua identità deformando l’immaginario, vivendo nei salotti, mentre la vita è altrove. Il fatto è che nella cosiddetta Seconda Repubblica il centrodestra ha governato per tre volte con Berlusconi in un arco di vent’anni durante i quali ha avuto tutto il tempo e i mezzi per esprimere e manifestare la propria cultura. Tanto più che il premier- tycoon, oltre ai suoi giornali e alle tre reti televisive, controllava anche la tv pubblica a colpi di diktat e editti bulgari. In quel periodo la Meloni non doveva essere ancora così autonoma se votava in Parlamento a favore di Ruby nipote di Mubarak e si schierava contro l’obbligo di fatturazione elettronica per i titolari di partita Iva.
Anche per la rivoluzione culturale della destra, però, vale il limite del rispetto delle libertà altrui: in questo caso, libertà di pensiero, d’opinione e di critica. L’egemonia si conquista con la forza delle idee, non si impone con il dominio dei mezzi di comunicazione. E quando questa rivendicazione si traduce nella pretesa autoritaria di un pensiero unico dominante, a danno dell’indipendenza e del pluralismo dell’informazione, allora non è più legittima. Né può valere come alibi la considerazione retrospettiva che anche la sinistra in passato ha fatto altrettanto: se era sbagliato allora, è sbagliato anche adesso. E la destra non fa che darsi la classica zappa sui piedi.
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