Governo
Il Pd va curato. Nell’interesse del Paese
Credo che il Pd abbia oggi la necessità di affrontare una seria riflessione su che cosa vuole diventare e faccia anche i conti culturali e politici con le diverse fasi nelle quali si è espresso. Credo sia una necessità e penso anche che ve ne sia l’opportunità e il tempo visto che la questione del governo del Paese è stata affidate a mani esterne alla politica o meglio alla politica dei partiti. Si parla da anni del fatto che i partiti – e a causa loro il fondamento stesso della democrazia – siano in crisi, che la società complessa della postmodernità non abbia più possibilità di essere rappresentata dai corpi intermedi.
Questo è tanto più vero a sinistra e nel Pd che in questi anni è stato esclusivamente un “Party in Public Office” dimenticando il suo dover essere essere necessariemente anche partito sul territorio.
E questo tipo di rilievi mi pare si prestino a molte interpretazioni. Da una parte sembra di sentire crescere l’idea che tanto più complessa è la società tanto più vada semplificata la sua guida: quindi leadership tecnocratiche e amministrative o – rovescio della medaglia – leadership populiste e incompetenti.
Cominciamo quindi da quell’analisi che parte fin dagli anni Ottanta con Niklas Luhmann (il sociologo che si pose per primo il problema delle società supercomplesse e della comunicazione) e che nel primo decennio dei 2000 vede soprattutto l’elaborazione di Zygmunt Bauman il teorico della società liquida. La consapevolezza di questa condizione sociale non ha prodotto alcuna volontà di rimodellare i corpi intermedi cominciando dai partiti e dai sindacati. Quando qualche tentativo è stato fatto (e in qualche modo la nascita del Pd, al di là delle contingenze, sembrava prendere atto di questa realtà) ci si è subito fermati. I partiti hanno assunto sempre più il carattere di partiti personali, di partiti del leader. Non c’è nulla di male nella forza delle leadership a patto che queste abbiano la capacità e la cultura politica di dare risposte ai problemi nuovi e sappiano creare anche con strumentazioni nuove quel necessario senso di condivisione delle soluzioni che nasce dalla consapevolezza comune della complessità dei problemi. Le risposte – si diceva un tempo – devono essere necessariamenti più semplici delle domande ma ma semplificazione non va operata a danno della conoscenza e coscienza della complessità semplicemente in queste non ci si deve smarrire. Le strade che abbiamo seguito sono state il contrario: la semplificazione era esclusivamente frutto della negazione della complessità. Si finiva sempre per tagliare il nodo gordiano solo perché non si aveva alcuna voglia di sbrogliarlo.
Faccio un esempio: la grande semplificazione rappresentata dalla “rottamazione” lanciata da Renzi confondeva la soluzione per il problema ed usava come modalità comunicativa un populismo destrorso. Un radicale ricambio di gruppi dirigenti (invocata all’interno come all’interno del Pd) rispondeva in maniera concorrenziale ad una più generale domanda incarnata dal populismo dei 5 Stelle per i quali la rottamazione doveva riguardare tutto dalle élite sociali e politiche alle forme stesse della democrazia rappresentativa. La spinta alla rottamazione (al di là della bruttissima parola) era probabilmente una necessità di fronte ad un quadro politico interno ed esterno che aveva fatto fallimento e che si candidava a rimanere in scena facendo esclusivamente valere rendite di posizione. Ma letta, con gli occhi di oggi, quella “rottamazione” che portò Renzi alla vittoria delle primarie dopo la sconfitta elettorale del 2013, era solo la sostituzione di un gruppo dirigente complicato e stratificato, con storie politiche diverse e altrettanto diversi tratti psicologici con una idea monocratica del Pd in cui al massimo di doveva riconoscere e mediare con i potentati avversi. Insomma il leader era il capo di una falange di fedelissimi che distribuiva pezzi di potere ad avversari riconosciuti solo come tribù o feudi avversi ma non eliminabili.
E con la forza di quella leadership politica quel leader andava poi a mediare con gruppi economici e di potere offrendo loro ascolto e interesse.
Il rifiuto della politica come motore di una idea di cambiamento.
Tutto questo non è in realtà un partito né di vecchio né di nuovo tipo. Eppure per due volte Renzi ha vinto le primarie del Pd a cui hanno partecipato diversi milioni di persone che sono probabilmente gli stessi che parteciperanno anche alle prossime primarie. Il renzismo (più ancora di Renzi) non è stato un fatto esterno al corpo del Pd che anzi almeno in parte ne è stato modellato.
La voglia del potere, il desiderio di fare il parlamentare più che di far politica è un qualcosa che pasce ancora ben saldo nei gruppi dirigenti di quel partito.
Per questo fare una riflessione politica sul recente passato sulle scelte compiute e su quelle che si vogliono compiere – non parlo delle tattiche politiche ma delle scelte strategiche, dei gruppi sociali che si intendono rappresentare, di che cosa può essere utile a questi e insieme all’insieme del paese – è un passo non eludibile. Stiamo parlando di un redde ratione? No, di cercare di definire scelte, posizionamenti sociali (e anche politici) con chiarezza. Tutti devono essere d’accordo? No neppure stavolta, resta fermo il diritto di avere posizioni e di affermarle ma deve restare anche la possibilità di costruire una politica attorno alle scelte condivise dalla maggioranza senza dover passare continuamente in una logorante conflittualità interna . Tra il “centralismo democratico” e il “faccio come mi pare” ci sarà pure un altra strada.
E per di più l’uscita di Renzi dal Pd e la costruzione di un partito concorrente non si concilia molto con l’idea di dover comporre rappresentanze interne che abbiano ancora Renzi come convitato di pietra.
Senza avere a tavola neppure il Commendatore ma solo qualche suo seguace.
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