Governo
Il Parlamento svuotato e i frutti della seconda repubblica
L’approvazione del maxi emendamento sulla manovra finanziaria, senza che il testo fosse conosciuto e discusso dalla commissione di competenza, rappresenta probabilmente uno spartiacque nella storia del parlamentarismo del nostro paese.
Ha sicuramente ragione chi, in queste ore, afferma che il governo ha umiliato il Parlamento, e le opposizioni hanno il pieno diritto di affermare che l’accaduto crea un pericoloso precedente, tanto sul piano politico che sul piano formale.
Ma quando ci si trova di fronte a uno spartiacque è lecito chiedersi come ci si è arrivati: se le cose (forse) non saranno più come prima, quand’è che hanno iniziato a discostarsi anche solo leggermente dal “prima”?
Il governo ha leso le funzioni del Parlamento. Certo, lo ha fatto con una gravità inaudita, ma non è la prima volta che succede qualcosa del genere.
Questo tipo di dinamica agisce da anni nella politica italiana. Se guardiamo alla seconda repubblica da una prospettiva strettamente parlamentare, vediamo che quella fase è stata la storia di un progressivo prevalere del potere esecutivo su quello legislativo. La “costituzione materiale” è stata sempre più in conflitto con quella formale. La prima repubblica si era chiusa con timide ipotesi di presidenzialismo; la seconda ha visto il fiorire di proposte di riforma che creassero un sistema maggioritario, o che aumentassero i poteri del Presidente del Consiglio, o che ponessero fine al bicameralismo paritario. Se la prima repubblica è stata il tempo delle grandi riforme sociali, la seconda è stata quello dei tentativi di riforma istituzionale. La proposta di riforma costituzionale di Matteo Renzi del 2016 è solo l’ultimo capitolo (finora) di una battaglia che ha visto coinvolti anche, per esempio, Berlusconi e D’Alema.
I padri costituenti hanno scritto una Costituzione che, attraverso il suo iter legislativo indubbiamente macchinoso, assicurasse un confronto ampio e partecipato tra tutti i partiti e le parti sociali. Il prezzo da pagare, secondo le loro intenzioni, avrebbero dovuto essere i tempi sicuramente non brevi per approvare qualcosa e, spesso, continui compromessi per arrivare al testo definitivo.
In nome di una maggiore velocità, negli ultimi venti anni abbiamo assistito a diversi tentativi di semplificare il quadro istituzionale sbilanciando i rapporti in favore del governo. Mentre questi tentativi fallivano, per sopperire a quella che veniva vista (a torto o ragione) come una mancanza del quadro istituzionale, la prassi parlamentare vedeva la nascita e il consolidamento di un uso continuo dei decreti leggi e del voto di fiducia, per cercare quanto più possibile di abbreviare i tempi… al costo, ovviamente, di limitare enormemente la discussione parlamentare e di trasformare il Parlamento in cassa di risonanza del governo. Sul piano politico, inoltre, gli ultimi trenta anni hanno visto lo svuotamento di funzione dei partiti e l’annullamento dei corpi intermedi, una dinamica tremenda su cui ha poi soffiato il fuoco del populismo e della democrazia diretta.
Se guardiamo bene, l’esautoramento del Parlamento inizia così: annullando la funzione dei partiti e riducendo il dibattito in parlamento (che è il luogo dove i partiti fanno rappresentanza). E difatti, per tutta la seconda repubblica, non è passata una sola settimana senza che qualche forza politica d’opposizione accusasse il governo di “svuotare il Parlamento delle sue funzioni”. Sempre più, ci si convinceva (a torto o ragione) che cambiare il quadro istituzionale fosse davvero necessario per migliorare la rappresentanza politica e la governabilità nel nostro Paese. Non a caso, nel referendum sulla riforma Renzi del 2016 la possibilità di accelerare il processo legislativo fu una delle argomentazioni più usate dai sostenitori della riforma (che pure aveva argomenti ben più seri e strutturati). Se qualcuno dovesse trovare un nome per la variegata truppa che negli ultimi trent’anni ha cercato di cambiare la Costituzione, potrebbe chiamarli “gli Accelerati”.
Dare priorità al dibattito parlamentare o alla rapidità d’approvazione è una scelta politica. Entrambe le posizioni sono ovviamente legittime, e certamente qualunque struttura istituzionale deve sempre cercare di bilanciare per quanto possibile le due esigenze.
Tuttavia, occorre prendere atto che questa dinamica ha radici antiche, e che spesso è stata alimentata anche da coloro che oggi ne guardano, terrorizzati, i frutti. Sicuramente il maxi emendamento rappresenta un caso unico per gravità e per il modo in cui ci si è arrivati, ma non si può negare che questo processo ha riguardato moltissime delle forze politiche degli ultimi anni, anche i riformisti che oggi (con diritto) guardano inorriditi l’operato del governo nel confronti del Parlamento. Di fronte alla facile obiezione secondo la quale fare un decreto per abbreviare i tempi è diverso da umiliare un Parlamento sul bilancio, è altrettanto facile rispondere con la teoria del piano inclinato: certamente non possiamo prevedere con quale forza e velocità la sfera arriverà a terra, ma siamo consapevoli di essere stati noi ad aver dato avvio al moto. È innegabile che la decretazione d’urgenza, senza che ci fossero urgenze reali che giustificassero l’annullamento della discussione, ha creato abitudini malsane che hanno di volta in volta colpito il Parlamento.
Oggi, per elaborare un modello alternativo a quello del governo è necessario prima di tutto capire questa dinamica e i suoi frutti distorti. Tutte le forze oggi di opposizione, dai repubblicani à la Calenda al mondo eterogeneo della sinistra che ha avuto responsabilità di governo, devono capire di aver alimentato, anche solo in parte, questo processo. Se non si chiarisce la genesi della situazione attuale, si rischia di finire come Emma Bonino, figura certamente di spessore a cui si devono grandi battaglie di civiltà, ma che appare un po’ ingenua quando, dopo aver lottato per anni contro il finanziamento pubblico ai partiti e contro lo stesso sistema dei partiti, ha lamentato qualche giorno fa, in un discorso in Parlamento, la lesione della dignità del Parlamento, senza riconoscere in questo proprio i frutti dell’abolizione del finanziamento pubblico e della graduale delegittimazione dei partiti.
Ovviamente, resta per tutti la massima libertà di scegliere la rapidità a scapito della rappresentanza, ma almeno, stavolta, lo si faccia con piena consapevolezza dei processi che si innescano.
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