Governo

Il M5S, Rousseau e la scelta di non scegliere

24 Novembre 2019

Malgrado travagli governativi e continue scissioni, il PD non sembra particolarmente soffrire l’alleanza con il M5S. Il partito rimane solido e potrebbe lentamente recuperare una connessione con l’elettorato tradito dalle scelte degli ultimi anni. Al contrario, il M5S appare sempre più in crisi di identità, il cui capo politico è costretto a subire l’intervento del padre nobile.

I dirigenti PD lasciano trapelare una linea oltranzista per cui è necessaria un’alleanza a 360 gradi, che dal governo di Roma si irradia nella penisola, in funzione anti-leghista. Tale strategia rappresenta una vecchia ossessione per le alleanze organiche e il bipolarismo, ma ha il pregio di consolidare le aspettative di chi si sente ideologicamente vicino al centrosinistra e distante da Matteo Salvini.

La linea del M5S appare invece oscura agli stessi militanti. Molti titoli alimentano la confusione perché associano la crisi identitaria alla leadership accentrata su Luigi di Mario, capo politico non adeguato. Il problema è più profondo, causato dall’assenza di riferimenti politici che vadano oltre la lotta alla casta, l’onestà e un generico ambientalismo. L’assenza di un’idea comune di paese si è riflettuta in una campagna elettorale permanente, la quale ha comportato promesse irraggiungibili e la conseguente negazione di principi cardine.

L’ultimo voto sulla piattaforma Rousseau ne è conseguenza diretta. L’ossessione del PD per le alleanze organiche ha messo il M5S nella condizione di dover scegliere il campo politico di appartenenza. Se istituire un bipolarismo destra-sinistra o uno popolo-sistema. Scelta oggettivamente troppo ardua per una classe dirigente che vuole incarnare l’estrema sinistra che fronteggia i fascisti, ma anche l’ala moderata del popolo che sfida i vecchi politicanti.

Un nodo troppo difficile da sciogliere, per cui si è scelto di non scegliere, chiedendo ai militanti se presentarsi o meno alle elezioni. Se i militanti avessero preferito non presentarsi, tutti avrebbero tirato un sospiro di sollievo. I fautori del bipolarismo destra-sinistra perché si sarebbe consolidata la loro linea, mentre Luigi Di Maio avrebbe potuto rifiatare dopo le ultime sconfitte. Sfortunatamente per loro, saltare una tornata elettorale può far bene a una classe dirigente che ha smarrito la rotta, ma non alla base. Chi milita in un partito deve percepirlo parte attiva in tutte le campagne elettorali, guidato da una classe dirigente che almeno prova a rappresentare il proprio popolo, pena la disaffezione e l’allontanamento.

Quei pochi militanti che utilizzano ancora la piattaforma Rousseau hanno giustamente espresso il diritto di vedere il proprio simbolo nella lista elettorale. Probabilmente, ormai è tardi per un voto chiarificatore che possa definire se il futuro del Movimento sia nello schema popolo-sistema o nel più tradizionale destra-sinistra. I dirigenti M5S potrebbero preferire di leccarsi le ferite di un’ennesima batosta che non metterebbe in crisi uno status quo già troppo malconcio per generare ulteriori ricadute.

Le urne vuote sarebbero viste come male minore, perché ciò che può far davvero deflagrare il M5S sembra essere una scelta di campo dalla quale emergerebbero tutte le contraddizioni. Adelante con juicio, verso la prossima sconfitta, la messa in stato di accusa del capo politico e le polemiche superficiali, per evitare di inoltrarsi in un dibattito troppo profondo per essere affrontato.

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