Governo
Il lavoro subordinato è morto
Il codice civile, all’articolo 2094, definisce il lavoro subordinato, altrimenti detto anche lavoro dipendente, così: “È prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore”.
Ecco, se consideriamo le migliori organizzazioni, quella che sanno affrontare meglio le difficoltà del mercato, quella chiusura dell’articolo del codice civile – “alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore” – risulta essere del tutto fuori tempo e inadeguata per le loro necessità.
In questa definizione, infatti, è implicita una visione culturale che viene dai secoli scorsi e che sintetizzo brutalmente così:
Il padrone possiede tutti i mezzi di produzione e, senza impegnarsi molto, sfrutta questo capitale per arricchirsi – una “rendita pura” (cit.). Il lavoratore invece, non avendo alcun patrimonio da utilizzare per vivere della sua rendita, può solo vendere il suo tempo / lavoro, che sarà sfruttato – anche per l’abbondanza di offerta – dal padrone.
Com’è noto, questa visione dei rapporti economici è stata seppellita dai fatti e dalla storia. Infatti il padrone si è dovuto trasformare, anche a causa del mercato, in imprenditore. Cioè colui che mette a disposizione sì i mezzi di produzione, ma deve ormai necessariamente avere talento ed energia per far funzionare efficacemente la sua impresa. Deve cioè lavorare con passione, grande impegno e metterci tutta la sua intelligenza.
Ma non basta.
Dovrà abbandonare anche l’idea, cha a molti (troppi) piace, di avere come collaboratori dei meri esecutori, cioè dei lavoratori subordinati. Se non lo farà il rischio, anzi la certezza, è di scomparire.
Vi sono, a dire il vero, altre teorie. Ad esempio quella che riguarda il contenuto assicurativo del rapporto di lavoro tra imprenditore e lavoratore. Sulla base di questa idea, all’origine del rapporto di lavoro subordinato c’è una differente attitudine al rischio dei due soggetti: la parte più sicura delle proprie capacità offre al soggetto meno sicuro dei propri mezzi la garanzia di un reddito, scambiandolo con la possibilità di acquisire il suo tempo di lavoro. Ma anche in questo caso, la sola acquisizione del tempo non è più sufficiente. Il lavoratore sarà insoddisfatto e l’imprenditore, come abbiamo già detto, non riuscirà a stare sul mercato a lungo.
E il lavoratore?
Oggi, per le ragioni indicate sopra, diventa sempre più difficile vendere solo ed esclusivamente il proprio tempo.
Infatti, gli imprenditori, richiedono anche la partecipazione al loro progetto, un contributo di idee; la condivisione di valori e obiettivi. In questo modo si riesce a dare un “senso” a ciò che il lavoratore fa quotidianamente, si va cioè oltre al semplice scambio economico. Sempre più, gli sarà richiesta un’attitudine imprenditoriale, ovvero la capacità di tradurre le proprie idee in azioni, anche attraverso l’assunzione di rischi e la capacità di pianificare e gestire risorse e progetti per raggiungere certi obiettivi. Insomma anche il lavoratore, per sopravvivere ai tempi, dovrà scegliere l’organizzazione giusta, quella più in linea con le sue aspettative, aspirazioni, insomma quella più affine (v. “Diversità, democrazia e organizzazioni”). Tutto ciò, almeno in teoria, dovrebbe realizzarsi con reciproco vantaggio.
Capite bene che tutto questo, con il lavoro sub-ordinato, non ha più nulla a che fare.
A tutte queste considerazioni vorrei aggiungere le molte incongruenze e assurdità che, la separazione attuale tra lavoro subordinato e lavoro autonomo, hanno creato.
Ad esempio nella definizione giuridica di lavoro subordinato, contenuta nel nostro codice civile e citata sopra, rientrano tranquillamente sia i lavoratori con una retribuzione di 15.000 euro all’anno che dirigenti con retribuzioni da milioni di euro.
Sinceramente si fatica a comprendere quale nesso ci possa essere tra un amministratore delegato e un giovane neo-diplomato appena assunto e soprattutto perché mai entrambi debbano godere delle stesse garanzie giuridiche, per il solo fatto di essere formalmente “subordinati”. Oggi, infatti, entrambi hanno più o meno le stesse tutele previdenziali, assicurazioni sulla malattia e maternità e soprattutto le stesse garanzie economiche nel caso di recesso del datore di lavoro.
Sfido chiunque a giustificarlo razionalmente.
E’ altrettanto difficile capire perché un dirigente licenziato riceva milioni di euro di “buonuscita” mentre un avvocato, un commercialista o un qualsiasi altro professionista (con competenze, “employability” e forza sul mercato del lavoro paragonabili), a fronte della perdita del loro maggior cliente, solitamente non ricevano alcuna indennità. Penso di conoscere la risposta di molti: la “monocommittenza” e la promessa di continuità. Ovvero il Dirigente ha un solo “cliente” e ha ricevuto una promessa di continuità dell’incarico. A me paiono, entrambi, argomenti moto fragili. Per quanto riguarda la monocommittenza, tra l’altro, abbiamo il caso degli “Agenti”: infatti questa figura giuridica gode delle stesse tutele, per il recesso del preponente (il “datore di lavoro”), sia quando siano monocommittenti (monomandatari) che pluricommittenti.
Siamo quindi nell’ambito dell’incongruenza, se non della totale irrazionalità del quadro normativo.
Uno dei pochi che, in Italia, si sia posto il problema adeguatamente è Pietro Ichino. In una delle sue tante proposte, aveva, correttamente, introdotto il concetto di “LAVORO ECONOMICAMENTE DIPENDENTE”. Un concetto assai più razionale dell’attuale distinzione tra lavoro “subordinato” e “autonomo” e che separava i lavoratori in due gruppi sulla base dei loro effettivi compensi. E cioè solo i redditi più bassi – indipendentemente dal fatto che derivassero da lavoro subordinato o autonomo – avrebbero beneficiato di tutte le tutele. Per tutti gli altri, invece, un livello minimo di diritti garantiti. Apparentemente una banalità, ma non per il nostro paese.
Diciamo quindi che il lavoro subordinato dovrebbe essere archiviato anche solo per l’assoluta irrazionalità del contesto giuridico che oggi lo sorregge. E se anche a questo problema si ponesse rimedio, probabilmente, non sarebbe sufficiente. Prima o poi, infatti, il mercato e gli imprenditori, spinti dalle necessità di sopravvivenza, ne determinerebbero la scomparsa per inadeguatezza.
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