Governo
I tablet di Maroni sono il dito: la luna è la voglia di solitudine del Nord
Torna a soffiare il vento del Nord, sulla politica italiana romana e romanocentrica. Torna, quel vento, sfruttando la prima (e piuttosto sgangherata, invero) occasione di protagonismo offertale da uno scenario in cui, dopo essere stato uno slogan buono per tutte le stagioni e per (quasi) tutte le bocche, la questione settentrionale era finita in soffitta, quasi non fosse mai esistita. Avevano contribuito, indubbiamente, l’appannarsi morale e politico dell’astro di Umberto Bossi e la spregiudicata e intelligente scelta di Matteo Salvini di reinventare il partito come una lega nazionale e nazionalista, con marcata vocazione unitaria e pulsioni xenofobe. È stata la forza politica di Luca Zaia, accompagnata dalla furbizia tattica di un navigato politcante come Roberto Maroni, a ripotrare le lancette indietro di qualche lustro, per ritornare alle origini e alla ricostruzione di una verginità che, seppur incredibile, ha convinto comunque la maggioranza dei veneti e un numero importanti di elettori lombardi.
Guardiamo prima i dati numerici, e quelli politici subito a valle. La vittoria di Zaia e del suo Veneto è piena e inconfutabile. Vota circa il 60% degli aventi diritto, in un referendum che prevedeva il quorum classico fissato al 50% degli elettori iscritti ai registri. Passano gli anni, i leader, le ere politiche, anche le voci che rappresentano quei territori, ma a Nordest continua a spirare netta la voglia di autonomia. Si veste da carroarmato che “invade” Piazza San Marco, racconta il dialetto, i dialetti, come se fosse una lingua, inventa e rottama balle identitarie come i riti arcaici dei celti o dei galli, ma in fondo capisce benissimo una lingua, per davvero: quella dell’autonomia fiscale. Quella di un maggiore controllo su dove vanno e come vengono spesi i soldi delle (tante) tasse che i cittadini delle due regioni storicamente e simbolicamente traino dell’economia nazionale, e del centronord in particolare, versano ogni anno all’erario nazionale. Il cuore del tema – sarà banale – è ancora quello che armò le idee di Gianfranco Miglio e gli arsenali elettorali della Lega di Bossi, la Liga veneta, e tutti gli altri.
Le proporzioni del risultato si capiscono meglio se confrontate con i dati delle consultazioni recenti. Nel Veneto del trionfo del voto autonomista, ad esempio, alle ultime elezioni regionali, quelle che nel 2015 confermarono la presidenza di Luca Zaia che prese ben più del doppio dei voti della sua sfidante Moretti, andà a votare il 57% degli aventi diritto. Due punti percentuali in meno di quanti hanno scelto di andare a votare per chiedere un’azione autonomista alla loro giunta regionale nei contronti del governo centrale. Calcolando che il sì in Veneto si afferma con percentuali davvero bulgare, ampiamente superiori al 95% dei votanti, chi ha votato sì è pari circa alla somma di chi aveva votato Zaia e di chi aveva votato Moretti. Quest’ultimo dato non lascia spazio a dubbi o a distinguo, e la gran parte del dividendo politico di questa vittoria è ovviamente di Luca Zaia, che già era comodamente egemone sulla sua regione.
In Lombardia il discorso è diverso, più freddo come capita quando le ragioni del voto sono più contabili e tecniche, e meno emotive ed identitarie. Se la “nazione veneta” infatti vive da sempre una narrativa, ed in essa si riconosce, con solidi elementi di particolarismo indipendentista, in Lombardia, fin dagli anni Ottanta, le ragioni della distanza e della minaccia del distacco sono sempre state pratiche, amministrative, cioè fiscali ed economiche. Si aggiunga che, a differenza del suo collega veneto, Roberto Maroni non può contare su un tasso di consenso così elevato, come dicono tutte le rilevazioni, e si potrà constatare che, in questo quadro, il dato di affluenza prossimo al 40% è tutt’altro che disprezzabile, mentre è davvero disprezzabile la pessima prova che ha dato di sè il primo tentativo di voto elettronico su larga scala. Ancora una volta, si conferma lo scollamento tra Milano e il resto della regione e, più in generale, la distanza tra i centri cittadini e la grande e remota provincia lombarda. È in quest’ultima che brillano i dati più favorevoli a Maroni e al suo referendum, mentre nelle città, e in particolare a Milano, l’affluenza è più bassa (anche se non va dimenticato che, ad esempio in occasione dell’elezione di Sala, a votare andò solamente la metà dei milanesi). Ancora una volta la città più ricca e “cool” d’Italia si conferma come un mondo a parte, come è stato al referendum costituzionale, e ancora prima alle politiche del 2013, lo stesso giorno in cui fu eletto proprio Maroni a governatore lombardo. In tutti questi casi, Milano ha rappresentato l’eccezione, un voto dissonante rispettoa al resto del basket, un’eccezione non in grado di cambiare i destini politici di un’area più grande. Difficile credere che, la prossima primavera, quando si voterà per il rinnovo della giunta regionale, le cose andranno diversamente. Per capirci: Giorgio Gori è sicuramente accreditato di un bel risultato a Milano; in Lombardia, però, il favoritissimo resta Roberto Maroni. Dopo il referendum di ieri il quadro è perfino un po’ più chiaro.
(ARTICOLO IN AGGIORNAMENTO)
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