Costume

I partiti nel rehab di Draghi per ritrovare l’identità perduta

17 Febbraio 2021

Il reset della politica spadaccina e influencer annunciato dal Governo Draghi può avere effetto rigenerante sulla politica e sui partiti: rimettere in sesto la loro identità.

L’identità dei partiti politici, cosa pensano, da dove vengono, che interessi rappresentano, è stato un tema a lungo e ingiustamente relegato agli interessi morbosi di chi sapeva sciorinare a memoria la compagine di governo dell’Andreotti IV o gli hotel dei congressi PSI degli anni ‘70. Cose da nerd e da nostalgici di Tribuna Politica sulla TV in bianco e nero.

In Italia i partiti sono in crisi d’identità da lungi, per ragioni comuni al resto dell’Occidente e per ragioni squisitamente nazionali, per questioni contingenti e per elementi di lunghissima durata. Soprattutto, l’identità dei partiti è stata un concetto travagliato e protagonista di alterne fortune. Già il tabù culturale del dopoguerra verso il dirsi conservatori, che sottrae un fattore all’equazione politica classica, e il carattere multiforme (eufemismo) della DC rappresentano storicamente elementi di identità mobile. La caduta del Muro di Berlino, l’azzeramento dei partiti di massa con Tangentopoli e la nascita subito dopo di partiti personali, che sostituivano il carattere del leader all’identità del partito, hanno relegato il tema di chi sono , da dove vengono e cosa pensano i partiti nello sgabuzzino dei concetti inutili. A chiudere la porta ha pensato l'(inevitabile?) asservimento della politica e del consenso agli stilemi della comunicazione social, dove identità fisse e quel minimo sindacale di intransigenza che segna i confini di chi si è e non si è rappresentano un ostacolo all’obiettivo dell’empatia.

Per chi ha in testa non dico Bad Godesberg (1959, l’SPD tedesca ripudia il marxismo) ma quantomeno la svolta della Bolognina e lo psicodramma collettivo che ne è seguito, gli attuali cambi di posizione dei partiti sembrano, non senza ragione, le mene di un’adolescente: disperati ma assolutamente non seri e soprattutto non certo irreversibili.

Eppure, proprio nel momento in cui il capo dello stato congela una temperie politica che è stata anche il culmine del tatticismo e della lotta fra cacicchi, ecco che si scorgono all’orizzonte, almeno per i partiti maggiori, tratti di quelli che sono, o potrebbero essere, approdi identitari finalmente un po’ più definiti. È un bene, perché dopo anni di would-be Chiara Ferragni (che è bravissima a creare empatia, non a comunicare identità) e di capitani di ventura (che imponevano carattere e idiosincrasie, non traghettavano comunità), c’è assoluto bisogno di chiarezza e trasparenza. Se devo darti il mio voto, la mia fiducia, le mie tasse, voglio capire come la pensi e soprattutto chi viene prima.

Perché adesso? Perché la sospensione del contingente e l’ingresso in un sistema a democrazia protetta e mediata consente, e costringe, a concentrarsi su chi si è realmente, al di là delle retoriche e delle uscite acchiappalike. È un po’ come togliere l’acqua al vino: rimane quel 10% di residuo secco che raccoglie tutta la sua anima, il suo patrimonio genetico, il suo terroir. Si disvela l’identità diluita.

Il partito che negli ultimi anni ha costruito l’identità più solida e definita è il PD. Finita l’ubriacatura renziana (bella al momento, pesantissima la mattina dopo) che voleva farne il partito della modernizzazione italiana anche contando qualche strappo, il PD si è ricollocato saldamente come il Partito dello Stato. Un partito i cui veri leader sono sergio Mattarella e Paolo Gentiloni, rispettivamente ai vertici delle due istituzioni, lo Stato e l’UE, verso cui il partito nutre da anni fede totale e pressoché acritica. Il Partito Democratico, soprattutto nella sua componente numericamente minoritaria ma culturalmente preponderante della ex sinistra DC, è il Partito della Nazione, composto di solidi professionisti della politica che sanno (salvo eccezioni) amministrare correttamente la cosa pubblica, dalla circoscrizione al Ministero. Lo dico senza alcuna ironia, perché questa solidità significa continuità dello Stato e ha garantito tanta parte della nostra credibilità in Europa, anche in momenti in cui le mode premiavano derive più radicali. Ovviamente (sempre salvo eccezioni), nei momenti di terremoto e scontento generalizzato, negli squarci politici in cui si riaffacciano soluzioni radicali, il PD resta sotto botta. Non perché non sia più un partito di sinistra (tema che trovo assai poco appassionante), ma perché per forma mentis propende per cambiamenti incrementali in direzioni consolidate. È un partito di processo più che di progetto, che si muove (nella visione e nella fluttuazione del consenso) su percentuali a una cifra.  Welfare, diritti sociali, diritti civili, un capitalismo ben temperato, tutto bene ma con moderazione, più il mainstream progressista di Repubblica che l’anarchia geniale dell’Economist.

La Lega è ancora in buona parte in mezzo al guado, perché nasce con un’impostazione leninista messa oggi alla prova del personalismo esasperato di Salvini come fu per il PD con Renzi. Dove per Renzi le componenti che sparigliavano era il dinamismo e la modernizzazione, per Salvini è stato il ribellismo che dragava ovunque vi fosse del risentimento contro la globalizzazione e la perdita di identità.  Anche in questo caso l’estrazione dell’acqua ha rivelato il gene dominante: la rappresentanza degli interessi dei ceti produttivi del Nord nel loro impasto di dinamicità e intraprendenza, ma anche di scarsa lungimiranza e generosità. È ancora una volta un bene, innanzitutto perché si supera il paradosso di governi, anche a partecipazione leghista come il Conte I, nel quale le istanze dei ceti produttivi del Nord non erano quasi calcolate, e ciò non è sano.

I 5 Stelle sono pienamente nel guado, ma sono convinto che, anche in ragione del dimagrimento di consensi (oggi superiori anche alle capacità cognitive del Movimento) si posizioneranno come il partito dei semplici. Non ho mai creduto alle menate di Casaleggio sul partito della democrazia digitale, ché il digitale è e resta in Italia tema da élite, né a quelle di Grillo sull’ancor più ZTL tema della transizione green. La vera legacy dei 5 Stelle, che in loro rivendicherei con ben maggiore orgoglio, è il reddito di cittadinanza, ridistribuzione di risorse verso i poveri, a partire dalle regioni dove questi sono purtroppo maggiormente concentrati. Anche la scalcagnata classe dirigente, che tanti lazzi continua a generare fra i well-to-do funziona all’interno di una retorica un po’ da “Mr Smith va a Washington”: il PD rappresenta lo Stato e la borghesia di pensiero (i salariati, i pensionati, gli insegnanti) che sta tutto sommato bene e accompagna un progresso ordinato, la Lega chi produce e vuole godersi i frutti della fatica, i 5 Stelle chi sta fuori ma non deve essere lasciato indietro.

Così non è tutto più lineare? Quando ripartirà la corsa, a maggior ragione ragionando in senso proporzionale, questi soggetti e questi interessi si potranno incastrare, dando vita ad azioni di governo più limpide e definite (sempre senza esagerare, siamo pur sempre in Italia).

E gli altri? No so dire. Giorgia Meloni ha investito tutti i risparmi in un derivato che scommette sul fallimento del Governo Draghi e adesso dovrà controllare ogni minuto la Borsa per vedere come andrà. Gli altri sono e restano politicamente e culturalmente irrilevanti, e possono sperare tuttalpiù di spartirsi le aree di identità che rimangono. Sapendo che i liberali in Italia non si schiodano dalle percentuali del Polo Laico PLI+PRI. Che la Storia ha ancora un senso.

 

PH: Bruno Panieri

 

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