Costume
I lavori della gig economy. L’ora di distinguere e tutelare
Alcuni decenni fa – credo fossimo all’inizio degli anni 90 del secolo scorso – Fabio Fazio all’epoca comico esordiente di Rai e Telemontecarlo fece una battuta molto divertente che diceva più o meno: lo sapete che oggi fare il PR è considerato un lavoro? Ce l’aveva evidentemente con i PR delle discoteche che guadagnavano 1000 lire per ogni persona che entrava con un ticket da loro distribuito durante la settimana.
Ovviamente Fazio sbagliava, perché non era riuscito a vedere più in là di un “lavoretto” fatto nel tempo libero da studenti universitari. Le pubbliche relazioni si sono rilevate un lavoro vero e proprio che è andato molto oltre la distribuzione di riduzioni e free drink per le discoteche.
Ugualmente oggi c’è chi fa ancora confusione, molta confusione, tra tutti i nuovi lavori (molti non sono per nulla nuovi, tra l’altro: li chiamiamo rider ma sono fattorini. Per dire) che si sono sviluppati con la digitalizzazione e la trasformazione del sistema di vendite e di consumo e quei lavori che invece sono nati e cresciuti con lo sviluppo enorme delle piattaforme di distribuzione di contenuti multimediali (da YouTube in su o in giù, come preferite).
È la cosiddetta gig economy.
Credo sia il momento di distinguere bene: da un lato ci troviamo di fronte a “vecchi” lavori che hanno cambiato nome e organizzazione perdendo però diritti, tutele, guadagni e contratti collettivi. Anche se qualcuno continua a chiamarli “lavoretti”.
D’altro canto invece ci troviamo di fronte a vere e proprie nuove professioni che non esistevano prima, i creators, cioè i produttori di contenuti digitali audio e video ma non solo che non riempiono il tempo libero, come crede qualcuno, con un piacevole hobby e nutrendo un desiderio di visibilità ma propongono contenuti su cui hanno compiuto studi, fatto approfondimenti, lavorato a lungo. Un vero e proprio lavoro con incredibili professionalità. Ma di questa seconda categoria di lavoratrici e lavoratori il legislatore sembra non essersi ancora accorto. Non esistono norme, non esistono tutele, non esiste neppure un vero riconoscimento.
Tra le tante cose da fare c’è anche questo: guardare all’esistente e riconoscere le nuove forme di lavoro. Non solo a livello italiano, penso sia il momento di un importante intervento dell’Europa. Magari cominciamo a parlarne ai nostri parlamentari europei.
Tra questi professionisti c’è per esempio la mia amica Fiorella Atzori che ieri ha scritto un post molto significativo in questo senso. Vi consiglio la lettura.
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