Governo
Sì, No, Nì: fact-checking sul referendum costituzionale
Il 4 dicembre, volenti o nolenti, è percepito come un referendum pro o contro il premier Renzi. Eppure, al di là delle sue conseguenze politiche, il quesito referendario riguarda il testo costituzionale, la legge fondamentale della democrazia italiana. Secondo i sostenitori del Sì, l’approvazione della riforma costituzionale, firmata Renzi-Boschi, avrà diverse conseguenze positive sull’intero sistema politico-istituzionale. Ma è vero? Duccio Facchini, autore del libro “Le ragioni del No”, ci guida in questa operazione di fact-checking sulle affermazioni dei sostenitori del Sì e, quindi, sull’effettivo contenuto della revisione costituzionale.
Hai scritto e presentato il volume “Le ragioni del no” (ed. Altreconomia) nei mesi precedenti al referendum del 4 dicembre. Qual è la motivazione principale alla base di questa presa di posizione?
Dopo mesi di lavoro e di analisi, sono convinto che, nonostante quanto venga propagandato, con questa revisione costituzionale il sistema istituzionale del nostro Paese non sarà affatto né più efficace né più snello né più efficiente, ma, anzi, tutto il contrario. In combinato con la legge elettorale attualmente in vigore, c.d. Italicum, infatti, il modello che rischia di fuoriuscirne è quello di un presidenzialismo o premierato assoluto, secondo la definizione del giurista Luigi Ferrajoli, anziché di una repubblica parlamentare, prevista dalla Costituzione del 1948. Sono arrivato a questa conclusione non per ragioni di convenienza politica ma per motivazioni di merito, dopo aver letto e analizzato a fondo il testo della revisione costituzionale.
Lontano, quindi, da una qualunque appartenenza partitica, sei la persona giusta con cui fare un vero e proprio “fact-checking” della revisione costituzionale e delle affermazioni del comitato per il Sì “Basta un Sì”. Una delle conseguenze più importanti della revisione costituzionale, secondo i sostenitori della riforma, sarebbe il superamento del bicameralismo perfetto, così da ridurre i costi e rendere più efficiente o, secondo la neolingua renziana, efficientare i lavori parlamentari. E’ vero?
Assolutamente no. Attribuendo solo alla Camera dei Deputati il conferimento della fiducia al Governo, il potere di indirizzo politico e di controllo dell’operato del Governo, da questo punto di vista, questa revisione indubbiamente si muove verso l’abbandono del bicameralismo perfetto. Ciò che contesto, però, è l’idea che attraverso questo cambiamento si arrivi a un effettivo snellimento e miglioramento del processo legislativo.
In che senso?
Le due Camere saranno tenute a legiferare insieme in sedici materie, tra cui quella fondamentale di revisione costituzionale. A votare su queste materie importanti ci penserà il nuovo Senato, formato da 5 personalità nominate per 7 anni dal Presidente della Repubblica e da 95 scelte, tra sindaci e consiglieri, dai Consigli Regionali. Queste figure, però, già sono state votate dai cittadini per svolgere una precisa carica che non è quella di Senatore. E’ possibile sapere in che modo una revisione di questo genere possa contribuire allo snellimento e al miglioramento del processo legislativo se queste persone già hanno un ruolo da svolgere? Come potranno i nuovi senatori dedicare il tempo necessario a garantire qualità legislativa, se già oberati di impegni? I membri del nuovo Senato, di fatto, inoltre, non avranno né l’incentivo economico, mancando l’indennità, né quello politico, rivestendo già un’altra carica da cui dipende la loro carriera, per fare bene il loro lavoro da senatori. Ciò al quale assistiamo, insomma, è il tentativo di curare le insufficienze della classe dirigente non attraverso una radicale autoriforma ma attraverso un cambio significativo delle regole del gioco.
Lo stesso discorso vale anche per un altro dei temi forti della Campagna per il Sì, cioè il venir meno, se questa revisione venisse approvata, del cosiddetto “ping pong”?
Prima di tutto è utile smentire questa vulgata del “ping pong”, ricordando, come mostrato nei dati dell’Ufficio Studi di Camera e Senato, che la grande maggioranza delle leggi, pari al 76% nella scorsa legislatura e all’80% in quella attuale, non viene rimandata da una Camera all’altra. Devo aggiungere, però, che l’attuale articolo 70 è composto di sole 9 parole proprio perché le procedure dell’attività legislativa dipendono dai regolamenti parlamentari. Si volevano veramente accorciare i tempi di approvazione delle leggi? Si doveva intervenire sui regolamenti parlamentari, non sull’architettura istituzionale.
La riforma, però, dicono che porterà sicuramente a un risultato: la consistente riduzione dei costi della politica. Ti risulta? E’ una valida ragione per cambiare quasi un terzo degli articoli della Costituzione?
Anche in questo caso i dati si discostano dalle fantasie. Nonostante il Presidente del Consiglio si ostini a parlare di 1 miliardo di risparmi, la Ragioneria dello Stato, già da due anni, aveva stimato in 59 milioni di euro le minori spese, relative al taglio delle immunità dei senatori, direttamente attribuibili alla revisione costituzionale. Le altre, invece, non era e non è possibile quantificarle con esattezza. Sappiamo sicuramente, però, che i tetti ai compensi dei consiglieri regionali e il taglio delle province non si applicano alle Regioni a Statuto Speciale. In questi casi i costi si manterrebbero identici. In generale, se si fosse voluto veramente diminuire i cosiddetti costi della politica, si sarebbe dovuto intervenire con una legge ordinaria e non con una lunga revisione costituzionale. Anche l’altro risparmio tanto sbandierato, pari agli 8,7 milioni di euro per il CNEL, si rivela più limitato di quanto immaginato: la dotazione organica del CNEL, infatti, dovrà essere riassorbita presso la Corte dei Conti e le sue funzioni riorganizzate.
E la rimodulazione degli strumenti partecipativi? Questa revisione aumenta o riduce gli spazi di democrazia?
Anche qui le cartoline del Sì appaiono un po’ deficitarie. Per le leggi di iniziativa popolare, si alza la soglia di firme necessarie (da 50.000 a 150.000) senza definire, però, tempi e modalità certe di discussione in Aula. Per i referendum abrogativi, i sostenitori del Sì dicono di aver diminuito il quorum ma perché si riduca, bisogna raccogliere nello stesso tempo più della metà delle firme richieste attualmente (+300.000), con le stesse modalità e lo stesso groviglio burocratico che già ora rende la raccolta delle firme un ostacolo non facile da superare. Per i referendum propositivi, infine, la loro effettiva entrata in vigore è subordinata all’approvazione di una legge costituzionale e, quindi, una legge bicamerale. Tieni presente il precedente della Prima Repubblica: la sola legge di attuazione, non due come in questo caso, del referendum abrogativo, sancito nel 1948, è stata approvata nel 1970. Più di vent’anni dopo, per una sola legge. Immaginatene per due!
Ultimo punto è la riorganizzazione dei rapporti tra Stato centrale e Regioni. Non pensi che la razionalizzazione presentata nell’attuale revisione vada nella giusta direzione?
Il primo problema è che la legislazione concorrente tra Stato e Regioni, in materie come il turismo, non è stata affatto superata, ma rientra dalla finestra: il nuovo testo costituzionale recita che le “disposizioni generali e comuni” spettano allo Stato, mentre la “promozione, valorizzazione, organizzazione e regolazione” sono di competenza regionale. Un’altra modifica sostanziale è stata estendere i confini di intervento dello Stato nelle materie regionali ogniqualvolta ci sia da tutelare “l’interesse nazionale”, che è una formula eminentemente politica: il governo può utilizzarla a sua discrezione.
I sostenitori del Sì, però, sostengono che gli interessi regionali trovano espressione e vengono tutelati dal nuovo Senato.
Nel caso in cui il Governo dovesse attivare tale “clausola di supremazia” si dice, una tutela del parere dei territori dovrebbe essere offerta dal cosiddetto “procedimento legislativo rafforzato”. La Camera potrebbe infatti “respingere” l’eventuale contrarietà (o proposte emendative) formulata dal Senato solo con una maggioranza rinforzata, che però è pari alla maggioranza assoluta della Camera. Tradotto: con l’attuale legge elettorale Italicum decideranno ancora i parlamentari del partito di governo.
Ma non è in ogni caso positivo che esista un Senato delle Autonomie?
Ecco un’altra forzatura dei sostenitori della revisione Renzi-Boschi. Dicono che il secondo organo legislativo si chiamerà “Senato delle Autonomie” ma l’unico nome che compare nel testo è quello, già in uso, di Senato della Repubblica. Di fatto, poi, i suoi membri non saranno portatori di nessun autentico interesse regionale ma godranno di piena autonomia decisionale, essendo valido anche per loro l’art 67 che garantisce il divieto di mandato imperativo. In Germania, invece, solo per fare un esempio, al Bundesrat, il Consiglio Federale, agli eletti di uno stesso Land è imposto il voto in blocco. E’ facile capire, quindi, come il Senato, previsto in questa revisione non si avvicini neppure lontanamente a un autentico “Senato delle Autonomie”: l’organo, infatti, manterrà il suo nome originale senza prevedere il principio di una dipendenza tra rappresentati regionali e organo che li ha scelti. Di fatto, insomma, si viene a creare un’altra Camera politica, non più eletta, però, dai cittadini.
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