Governo
Essere governati dalla Casalinga di Voghera
Quanto affermato dal Presidente del Consiglio nel suo intervento a Venezia, all’Università Ca’ Foscari, e quanto previsto per l’Università nel progetto della legge di Stabilità rafforza la percezione che uno spirito si aggiri per le stanze di Palazzo Chigi, quello della Casalinga di Voghera.
Leadership e followship, capacità di guida e inseguimento degli umori popolari sono due poli entro i quali si colloca l’azione del leader di governo contemporaneo e caso per caso si può cogliere la maggiore approssimazione all’uno o all’altro polo. Ma nel nostro caso, il caso italico, accade qualcosa di parzialmente diverso. L’umore popolare e il senso comune (mi si perdoni se cito sempre il Manzoni a questo proposito, ma nessuno meglio di lui distinse il senso comune dal buon senso, che se ne sta nascosto per timore del potente e pervasivo senso comune) incarnano ora lo «spirito» di governo e si presentano a noi cittadini sotto le sembianze di una giovane, sprintosa, Casalinga di Voghera 2.0.
Il modello CdV presuppone che in ogni ambito il punto di partenza per intervenire siano uno o più dei cliché dominanti nel settore prescelto. L’einaudiano «conoscere per deliberare» in questa prospettiva è obsoleto, perché la nostra casalinga conosce già tutto, la sua fonte del sapere è appunto il «senso comune», non deve nemmeno deliberare, se per deliberare si intende «stabilire, risolvere, venire a una determinazione o comunque esprimere una volontà, una decisione, dopo opportuna discussione o ponderazione» (Treccani). La nostra casalinga sa, decide e passa all’azione, e decisione e azione sono in realtà tutt’uno.
Questo modello lo abbiamo visto all’opera con il Jobs Act, pensato in origine per affrontare il problema della disoccupazione, perché «non si assume perché non si può licenziare, signora mia» e dunque basta aumentare la flessibilità. Lo si è visto nella riforma costituzionale, perché il governo è bloccato dalle lungaggini del parlamento e questi parlamentari guadagnano un sacco di soldi senza meritarli – sempre «signora mia» – e dunque ecco un senato pasticciato che non si capisce cosa rappresenti, ma debole e che non eroga stipendi ai senatori. Ecco, in nome della semplificazione trasformata da buona regola a feticcio, una revisione del Titolo V che interviene sulle materie concorrenti tra Stato e Regioni, che a orecchio sono quelle che più possono creare contenziosi, quando i maggiori conflitti si sono prodotti attorno alle materie di competenza statale. E si potrebbe continuare. Naturalmente, il senso comune si produce a partire da constatazioni a partire da dati di realtà – anche se spesso travisati e mal interpretati – e il procedere imperioso della CdV può anche produrre qualche buon risultato: qualcuno – accanto ad altri molto discutibili, rilevati da esperti del settore – si può certo trovare nella riforma del mercato del lavoro, come in quella del Senato, almeno uno, ovvero il venire meno del rapporto di fiducia tra Esecutivo e Senato. Ma quanti danni si possono provocare quando si interviene su materie complesse ignorando quella complessità e non ragionando sugli esiti che si possono produrre incidendo un po’ a caso su di essa?
E veniamo così al nostro punto di partenza, l’Università. Matteo Renzi ha tirato fuori dal cilindro un nuovo coniglio, l’uscita dalla Pubblica amministrazione. Uno slogan molto popolare, ne siamo certi. Che cosa concretamente per lui ciò comporti non lo ha detto, anche se il suo bersaglio pare essere l’eccessiva burocratizzazione e regolamentazione. Ma come si legge sul sito Roars.it (lettura necessaria per chi vuole capire qualcosa sull’Università, da tempo immemorabile vittima, oltre che di sé stessa, anche dei politici apprendisti stregoni), l’eccesso di regolazione si trova anche nella sempre citata università americana, dove lo Stato ha un ruolo limitato, a dimostrazione che «per disboscare la burocrazia inutile, più che la fede nella magia, ci vogliono determinazione e lavoro serio.». Ma in attesa che questo prossimo tocco di bacchetta magica risolva ogni problema, nella legge di stabilità pare che sia previsto un canale concorsuale alternativo per un numero limitato di posti che va a sovrapporsi a quello introdotto da una delle più inquietanti apprendiste stregone che hanno messo le mani sul sistema universitario, ovvero l’ex ministro Gelmini. Anche qui, signora mia, si tratta di mostrare che si vuole sbloccare, liberare, svecchiare, premiare il merito. Che poi la sostanza del reclutamento non cambi, o peggio diventi ancora più caotica e iniqua, non importa. Con una misura «detto-fatto» si va a rimpolpare la messa in scena degli allegri e felici riformatori.
Sì, perché oltre al profilo della Casalinga di Voghera, lo spirito del riformismo ultima maniera richiama i tratti dell’ «attor giovane», che vuole rubare la scena a tutto e tutti e che per non farsi strappare nemmeno una battuta se ne inventa una dopo l’altra, attento però a non disturbare il senso comune quando questo è così diffuso da poter toccare la sua popolarità (ad esempio, mica si parla mai della selezione nel percorso di studi universitari, impopolare tra la gran parte degli studenti) . L’attor giovane non governa, interpreta la parte del governante. Per giunta, il «nostro» attor giovane scrive il suo copione e decide di volta in volta cosa può apparire fondamentale (tanto per fare un esempio, ha deciso che l’alfa e l’omega dell’innovazione istituzionale è il bicameralismo e ora ci dice – intervento a Venezia – che la riforma istituzionale è cosa fatta e conclusa), e il sistema dell’informazione lo segue e lo compiace credendoci.
Infine. Infine la cifra del nuovo stile di governo si completa con la regola del «debole con i forti, forte con i deboli». Le categorie più forti e con potere di ricatto, anche perché sanno organizzarsi e hanno vari tipi di risorse da mettere in campo, sono al massimo infastidite (vedi i magistrati). E’ sulle altre che si esercita il nuovo mirabolante riformismo come, appunto, nel caso dell’Università. Diffusi difetti congeniti, baronie, nepotismi, conflitti di interessi, eccetera, amplificati e generalizzati dalla voce popolare, hanno minato nel tempo l’autorevolezza dei professori universitari. I quali, peraltro, non appaiono nel loro complesso una categoria di cuor di leone. Non giurarono in massa, con l’eccezione dei famosi dieci, fedeltà al fascismo nel 1931? Per giunta, muovendosi come singoli individui o per clan non hanno alcuna capacità organizzativa come categoria. Dunque, quale ambito migliore per sbizzarrirsi con interventi ad effetto (comunicativo) senza preoccuparsi delle conseguenze? Naturalmente con buona pace del futuro dell’Università, di chi ci lavora e di chi ci studia.
Così è, purtroppo. E purtroppo sono in pochi che hanno voglia di riconoscerlo pubblicamente.
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