Governo
E se il Movimento 5 Stelle fosse fatto per stare solo all’opposizione?
(Qui trovate la prima parte)
«Il movimento 5 Stelle è a un bivio». «Il Movimento sta per implodere». «Avranno un crollo e poi inizierà il declino». Frasi che abbiamo sentito tante volte, in questi anni, e che poi sono risultate spesso smentite dai fatti e dalla storia. Ma questa volta è diverso? Il dubbio viene, mettendo in fila i fatti dell’attualità – il voto sull’immunità a Salvini, le tensioni costanti all’interno del movimento, ad esempio – e inquadrandoli nella contingenza lunga di un abbraccio di governo con la Lega di Salvini: un abbraccio che pare solido, tanto da risultare nel medio periodo oppressivo e magari, perfino, soffocante. Di tutto questo e del destino di un movimento che ha rappresentato la più grande innovazione politica in Italia dai tempi della nascita di Forza Italia, abbiamo parlato con Paolo Natale, nostro collaboratore fin dal primo giorno, professore universitario alla Statale di Milano di Metodologia della ricerca, sondaggista e recente autore, con Roberto Biorcio, di un libro sui 5 Stelle, intitolato: “Dalla protesta al governo”, uscito appunto in concomitanza con la nascita del governo Conte.
Certo, all’opposizione è sempre tutto più facile. Vale anche per il Movimento 5 Stelle.
«Assolutamente, e loro erano decisamente più adatti a stare all’opposizione, e probabilmente anche più utili al paese, perché avrebbero continuato ad esercitare una fortissima azione di pungolo e di controllo. Il mio primo libro su di loro, scritto sempre con Biorcio, parlava proprio di questo, e volevo intitolarlo addirittura meno male che Grillo c’è, proprio per riconoscere loro l’indubbio merito di innovazione che avevano. E invece, pochi anni dopo ci troviamo a constatare due elementi non proprio esaltanti, nel loro percorso di governo. Il primo è che non c’è niente di davvero nuovo nella selezione della classe dirigente, niente di nuovo nei modi e nei tempi della politica. Vincono logiche di corrente e di fedeltà. La seconda è che sono spesso impreparati, un’impreparazione che per alcuni rasenta la macchietta, e la gente se ne accorge».
È interessante notare che la lista dei ministri presentata da Di Maio prima del voto era comunque popolata anche da persone serie e competenti, solo che poi fai l’alleanza e fai semplicemente posto alla dirigenza politica che hai, segando tutti quei tecnici. Comunque, dobbiamo dirlo: la caduta del livello della classe dirigente è iniziato prima di loro, e loro invece di distinguersi sono scesi ulteriormente e hanno consolidato una tendenza al ribasso che dura da decenni.
«La dimensione di cui parli in effetti è duratura, pensiamo a Berlusconi e a molte suo nomine. Qui però c’è qualcosa di strutturale: uno vale uno, il popolo entra in parlamento e il popolo, preso a caso, per definizione non ha l’abilità di governare, perché governare è una cosa difficile. Una volta l’incompetenza era vietata, una volta la gente studiava. In fondo anche di recente abbiamo visto esempi di evoluzioni positive e che nessuno si sarebbe aspettato: prendiamo Mara Carfagna, che oggi è molto celebrata; è semplicemente molto migliorata, applicandosi. Loro hanno un problema logico difficilmente risolvibile: uno vale uno, quindi in teoria tutti sono uguali e tutti dovrebbero poter ricoprire ruolo di potere e responsabilità. E poi hanno – per ora – il vincolo dei due mandati. Così, quando uno magari nel frattempo ha imparato a fare politica, è il momento in cui non può più farla. Non a caso in questi giorni si parla di una deroga a questo vincolo».
In questo quadro, a governare sono poi gli unici che capiscono qualcosa, che sono o i professionisti della politica (in questo caso i leghisti), oppure quanti ricoprono ruoli tecnici stabili che non sono frutto di elezioni democratiche, cioè gli alti burocrati e dirigenti delle istituzioni, che sanno come funzionano e le governano a prescindere dal politico di turno.
Per concludere, spostiamoci nell’unica città italiana in cui il centrosinistra sembra ancora forte e capace di produrre una visione e un modello: Milano, naturalmente. Dove c’è un consenso ampio per un sindaco, Beppe Sala, che però rappresenta una coalizione che a livello locale è ampiamente perdente, stando ai sondaggi. Basta un consenso personale così forte per ribaltare una dinamica politica? Per Gori alle scorse regionali ad esempio non bastò.
«Vero, il voto per la regione è però parente prossimo della politica nazionale. Le dinamiche di consenso sono più simili a quelle delle elezioni politiche. Il sindaco invece è più direttamente sentito come responsabile della qualità della vita della sua città ed è sicuramente riconoscibile come figura “autonoma”. Proprio per questo, secondo me Sala regge e rivince, se si ricandida. L’unico che potrebbe batterlo è Salvini…».
Per contro, è vero che lui è l’unico che può vincere per il centrosinistra. In caso di mancata ricandidatura, peraltro, al di là della debolezza di alternative, sarebbe la seconda volta che il sindaco uscente non si ricandiderebbe. Sarebbe difficile da spiegare…
«Sala ha successo perché incarna bene lo spirito milanese: lavora, non rompe troppo le scatole con le cose politiciste, e dice poco o nulla delle politics, cioè delle alleanze e delle tattiche. La città funziona, cresce abbastanza bene, l’economia che tira lavora molto bene come integratore sociale, e la gente per questo non si lamenta troppo, come accade invece in tante altre metropoli. Poi lui è uno che ha un tocco umano».
Personalità precisa e riconoscibile, ma non escludente. Tutto quel che diciamo però sembra dire che una proiezione nazionale non si dà.
«No, anche perché governare una città è diverso rispetto a governare un paese e a governare le dinamiche che ti servono per arrivarci. Insomma, anche io credo che una sua leadership nazionale non sia all’orizzonte».
È da un’ora che parliamo di politica e ci siamo dimenticati che presto ci saranno le primarie. Che coincidenza. Si arriverà a un milione di votanti, o il disinteresse sarà tale da tenere la gente di centrosinistra lontana da quel voto?
«Massì, 1 milione lo fanno, tieni conto che sarebbe comunque un sostanziale dimezzamento rispetto alle ultime primarie, quelle che Renzi vinse prima di perdere pesantemente le elezioni. La cosa paradossale è che per una volta che le primarie sono un po’ contendibili, rispetto ai plebisciti degli anni passati, proprio stavolta a votare andranno in pochi».
Destino cinico, ma certo non baro.
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