Governo
Doppio movimento, falso movimento, nuovo movimento
Il Plebeismo. Doppio movimento
La prima preoccupante settimana con Trump presidente permette di iniziare un’analisi in prospettiva della globalizzazione e dei suoi effetti politici e sociali nelle diverse aree del mondo. Un fenomeno complesso irriducibile a semplicistiche formulazioni accusatorie o magnificanti. Se fuori dall’Occidente abbiamo assistito a una massiccia emersione dalla povertà e al costituirsi di un inizio di ceto medio e di società civile in soli 25 anni, in Occidente il ceto medio si sta invece smembrando e declassificando. Questo doppio movimento produce due reazioni speculari: Trump e fondamentalismo islamico. Sembrano contrapposte ma sono complementari e hanno in comune una tendenza plebeista. Il plebeismo è la variante antidemocratica di ciò che chiamiamo, con un termine troppo onnicomprensivo, populismo. Il plebeismo è a favore delle innovazioni tecnologiche ed economiche (finanziarizzazione, robotizzazione) coniugate alla conservazione sociale e civile. Negli anni di Ahmadinejad fu premiato in Iran un cartone animato che rappresentava quel Paese nel futuro desiderato dalle loro élites: c’erano macchine volanti, energia nucleare, consumismo, ma le donne erano tutte velate, le leggi prese direttamente dal Corano e sostanzialmente una società ordinata, chiusa e repressa.
Questo cartone è il sogno plebeista: un popolo ridotto a plebe senza diritti sociali e civili ma ordinato e funzionale all’accumulazione della ricchezza di pochissimi.
Il doppio movimento è questo: fuori dall’Occidente occorre contenere l’emersione di un ceto medio e il suo farsi società civile (ciò che porta con sé rivendicazioni di società aperta, diritti civili e sociali, democrazia, emancipazione e laicità), dentro l’Occidente convogliare rabbia e paura di un ceto medio in declassamento contro un falso nemico: lo straniero. Approfittando di questa plebeizzazione dei ceti medi per contrarre gli spazi di libertà e diritti finora conquistati. In questo Trump e fondamentalismi sono complementari e funzionali l’uno agli altri.
La categoria di populismo con la quale il discorso pubblico mette insieme Syriza e Alba Dorata, Brexit e Corbyn, Podemos e M5S, Trump e Sanders, Lepen e Kirchner, evidentemente non è utile alla comprensione dei fenomeni, ma solo alla confusione per la demonizzazione. Occorre distinguere in questi fenomeni, anche per ridare senso a queste due categorie infiacchite, una destra e una sinistra. Il plebeismo è la destra, produce un doppio declassamento: da popolo a plebe (niente corpi intermedi, nessuna forma di partecipazione attiva alla cosa pubblica) e da democrazia a plebiscito (anche digitale perché spesso, come detto sopra, è tecnottimista), promette protezione al popolo tramite una sua rinazionalizzazione e il conflitto con altri popoli, che siano migranti o produttori di merci di altre nazioni.
Dietro queste promesse demagogiche si può però vedere il reale scontro tra due capitalismi: da un lato quello dell’algoritmo, delle società aperte, dei ceti creativi e cosmopoliti, immateriale, che produce enormi profitti e poca occupazione (quindi pochi consumatori per le merci classiche ma molti per i suoi prodotti low-cost e dematerializzati) e che nel mercato-mondo trova la sua continua valorizzazione. E’ il capitalismo che non soffre concorrenze nel mercato-mondo e che vediamo in rivolta contro Trump: Amazon, Ryanair, Starbucks, Silicon Valley. Dall’altro un capitalismo certo postfordista e finanziarizzato ma produttore di quelle merci classiche che hanno bisogno di essere protette contro merci di altri paesi mettendole in concorrenza insieme ai lavoratori che le producono. Muri, dogane, frontiere, dazi sono le sue armi classiche, da una parte e dall’altra del muro si aizzano le rispettive plebi.
Come non è uno fuori e contro l”establishment ma un volto di questo, Trump non è la fine della globalizzazione ma l’estremizzazione di una sua faccia nascosta ma sempre presente. Misure di protezione delle merci occidentali ci sono sempre state, soprattutto nei confronti del cosiddetto terzo mondo ma anche tra membri del primo come Prodi sperimentò a proposito di acciaio. I vari Round del WTO hanno sempre sancito misure che avevano come frame la libera circolazione di capitali, merci e uomini occidentali e la controllata, subordinata o impedita circolazione di capitali, merci e uomini non occidentali. Così come il Neoliberismo non prescindeva dallo Stato ma lo declassava a prestatore di ultima istanza per la socializzazione delle perdite e retrovia militare per consolidare i suoi territori e destabilizzare gli altri. La crescita dei BRICS, la presidenza Obama e alcune illuminate dirigenze degli organismi internazionali stavano cambiando, timidamente, questo quadro in ottica più multilaterale ma la crisi economica combinata con diverse e spesso provocate, vedi alla voce Brasile, crisi politiche e militari hanno bloccato o comunque rallentato il processo. I due capitalismi sono andati avanti insieme in quella che uno di loro, Warren Buffett, ha chiamato la guerra alla povertà persa dai poveri. Conquistati tutti i territori, cancellato definitivamente il vecchio ordine politico e sociale post-bellico e riconcentrata la ricchezza al vertice, ora i due capitalismi sono in scontro. E dalla trentennale egemonia della destra di Reagan-Thatcher si rischia di uscirne a destra con Trump.
Non si vuole dire certo che siano sullo stesso piano o che siano ugualmente pericolosi, sarebbe un errore, costato carissimo già negli anni 30 del secolo scorso, da non ripetere. L’estremizzazione unilaterale e nazionalistica della globalizzazione può ridisegnare un nuovo ordine mondiale in cui l’Europa avrebbe il volto di Orban e le nuove sovranità rovescerebbero la protezione in conflitto tra diversi popoli sovrani. Forse è presto per parlare di nuovi fascismi, ma si è in ritardo per cominciare a correre ai ripari.
Perché se i cittadini occidentali cresciuti negli anni dell’egemonia liberaldemocratica si rendono disponibili al ripiegamento nazionalista la responsabilità è delle élites liberali globali interpreti di una governance che ha portato alla situazione descritta dai rapporti di Oxfam e Mckinsey: si produce sempre più ricchezza e si redistribuisce sempre meno, tanto che 8 uomini posseggono la ricchezza di metà dell’umanità. E, a proposito di coerenza liberale, un terzo di questa ricchezza deriva da eredità, il 43% da relazioni clientelari.
Le sinistre. Falso Movimento
La sinistra in tutte le sue infinite e fantasiose varianti in Europa è fuori dal campo di gioco, sta sugli spalti e tifa. Negli ultimi venti anni aveva avuto anch’essa un doppio movimento, subalterno però, davanti alle trasformazioni epocali della globalizzazione: da una parte una sinistra mainstream che ha accompagnato le trasformazioni del capitalismo mitigandone la potenza distruttrice dei vecchi rapporti sociali (minima difesa sindacale delle posizioni già acquisite, nessuna difesa delle nuove)
e ingentilendole con (sacrosanti, sia detto fuor d’ogni fraintendimento) diritti civili avanzati e diritti umani internazionali, una sinistra che da una parte difende (poco) pezzi di lavoro stabile residuale e dall’altro sposa nuovi soggetti cosmopoliti e creativi in un gioco che però ha smesso di funzionare perché questi nuovi soggetti, soprattutto nell’Europa del sud, hanno condizioni di lavoro e di vita assai peggiori dei lavoratori subalterni classici; dall’altra una sinistra che avrebbe volentieri fermato il mondo per scendere e tornare a piedi ai mitici anni del compromesso socialdemocratico, per renderlo moderno tramite, ancora una volta, diritti umani e civili.
Davanti al doppio movimento del capitalismo, davanti a quel conflitto tra i due capitalismi, queste due sinistre sono più che tentate, ancora una volta, di prenderne parte in posizione subalterna. La prima continua il suo appoggio, un po’ meno acritico però, al capitalismo open ma in Europa si divide tra un lato e l’altro dell’austerity; la seconda sembra lasciarsi ammaliare dalle sirene sovraniste, culla l’illusione di ritrovare, sapendo di averlo perso da lustri, quel popolo lungo la strada della brexit, del noeuro, dei patriottismi popolari e fa l’occhietto alla parola protezione nella speranza che faccia rima con quelle del vecchio e amato compromesso socialdemocratico.
I popoli europei, non sapendo cosa farsene di questa doppia subalternità, accettano dalla destra la declassazione a plebe in cambio di un po’ di protezione, svendono pezzi di libertà in cambio di un po’ di sicurezza, dimenticano l’emancipazione in cambio di un nemico più povero su cui scaricare rabbia e frustrazione.
Nuovo movimento
Ci sono però delle novità importanti in questa povera Europa. La prima è la fine della grande coalizione nel Parlamento Europeo. Può sembrare minimale rispetto lo scenario descritto finora, invece è un fatto politico che può liberare energie scomponendo e ricomponendo schemi.
Energie e schemi nuovi che di fatto già arrivano e sono spesso risultanti da cambiamenti e movimenti della società. Sono molteplici e multiformi: la dialettica (non risolta ma dinamica) tra PSOE e Podemos in Spagna, il coraggioso e realista esperimento di Syriza in Grecia, la storica vittoria (per un partito come il PSF) di Hamon in Francia, Corbyn in Gran Bretagna, le sinistra unite in Portogallo, la resistenza innovatrice delle socialdemocrazie scandinave e forse perfino la SPD tedesca che potrebbe, sperare è lecito sed cum grano salis, riservarci qualche sorpresa. Tutti tentativi, questi, di uscire da quel falso movimento subalterno detto prima e di ritrovare una generale autonomia di intenti e di programma coniugando società aperta e protezione, sviluppo e giustizia sociale, innovazione ed emancipazione.
Manca l’Italia in questo quadro, manca perchè le sinistre, entrambe profondamente divise e in continue scomposizioni/ricomposizioni improduttive ed elettoralistiche, sono ancora intrappolate in quel falso movimento detto prima. Manca perché la principale novità politica, un M5s diventato in pochissimi anni la seconda o forse prima forza politica del Paese anche perché capace di riattivare numerose energie sociali e civili con forme più moderne di altri partiti, rifiuta volontariamente di darsi un’identità definita rifugiandosi nel, per ora pagante a livello elettorale, “né-né”. Il balletto europeo tra il partito più europeista e quello più antieuropeo dimostrano plasticamente questa volontà di non definizione in cui la politica è sostituita da tecnicismi algoritmici elettorali (il tecnottimismo) e da una comunicazione direttiva e verticale. Un movimento in cui utopia e politicismo convivono diretti dal secondo finché si è opposizione ma che poi si scontrano nelle esperienze di governo locale finora esperite.
Eppure qualcosa si muove, anche in Italia si comincia a ragionare di reddito minimo non come diritto assoluto ma relativo alla fase di robotizzazione e informatizzazione del lavoro, di continuità di salario e formazione per i lavoratori intermittenti, di un nuovo welfare finanziato dal differenziale di profitto e rendita portato dalle innovazioni (ciò che le renderebbe innovazioni sociali storiche e non mere ristrutturazioni tecniche), di democrazia continua e informata e non diretta, di nuovi corpi intermedi anche informali, di rigenerazione urbana come intervento sociale e culturale prima che architettonico, di nuove forme e luoghi di lavoro collaborativo e generativo, di economia circolare, di sviluppo locale sostenibile, di nuovo mutualismo solidale, di immigrazione come risorsa culturale, demografica, economica capace di rendere l’Italia un Paese più adattabile ai cambiamenti della globalizzazione e più connesso alle reti internazionali.
Chi ragiona di questo non sono accademici elitari nei convegni, sono i soggetti che queste cose le praticano: una rete nazionale informale e in continua evoluzione fatta di studiosi, di volontari, di cittadini attivi, di lavoratori quasi sempre precari, di attivisti sociali che negli ultimi decenni hanno dato vita alle reali esperienze di innovazione e sperimentazione in tutti i campi. Queste cose le hanno inventate, praticate, verificate e rielaborate. Possono attivarle ovunque, sanno attivarsi comunque. E’ una classe dirigente reale e informale orfana e bisognosa di politica, ma con una politicità intrinseca assai più alta di chi fa politica in senso stretto. Perché fanno politiche.
Non vuole essere l’oziosa e illusoria esaltazione della società civile contro la società politica, questa rete è politica, più della politica in senso stretto.
Che tutto questo trovi il terreno più fertile nei “centri vitali” dell’asse politico principale come propone Robert Walser o nel mutevole ricomporsi delle moltitudini come propongono Negri e Hardt è troppo presto per dirlo e forse non è detto, in tempi mutevoli e liquidi, che sia per forza un’alternativa secca.
La possiamo chiamare con Bonomi comunità della cura contrapposta a quella del rancore o rete dell’iperdemocrazia seguendo Attali, ma al di là del nome è questa rete che ha in mano gli strumenti per contrastare il plebeismo.
Una rete che conosce bene le realtà delle nuove esclusioni, dei declassamenti, dei conflitti orizzontali, che vede ogni giorno quel popolo farsi plebe e ogni giorno affina strategie di resistenza per riconetterlo alla cittadinanza.
Se si vuole trasformare questo Paese si può fare solo insieme a questi esclusi vecchi e nuovi con cui questa rete convive quotidianamente, coproggettandoci il futuro, coinvolgendoli nei processi generali, aprendo i varchi, facendoli accedere per la prima volta ad una piena cittadinanza, dando loro una missione civile di cambiamento ma riconoscendogli pieni diritti, primo fra tutti un welfare universale onnicomprensivo (lavoro sano, casa, istruzione, sanità, tempo libero…).
E’ ormai imprescindibile un nuovo patto sociale che parta da questo riconoscimento.
Un nuovo contratto sociale, modernissimo, generativo ed includente. A porte aperte, con un motore ad inclusione continua che prevenga e impedisca i conflitti tra ultimi e penultimi, che restituisca autorevolezza alle nostre istituzioni del vivere comune, che restituisca legittimità a ciò che è solo normatività.
E che liberi la politica e l’elettorato dall’inferno del “meno peggio” per portarci nel purgatorio terrestre del “relativamente meglio”.
Ma va fatto in fretta, questo pezzo di umanità è pronto a farsi nuova cittadinanza e a collaborare per un nuovo sviluppo, ma se si trova ancora davanti porte chiuse è pronto anche a boicottare ogni cambiamento che non sente suo, a far saltare ogni cosa che reputi aliena ed alienante (perfino la stessa Costituzione, magari posta diversamente alla prossima occasione), ad imbarcarsi in avventure distruttive, a scommettere tutto in una guerra tra poveri, ad abolire i lasciti dell’Illuminismo, dell’Umanesimo e di tutte le culture dei diritti e dell’emancipazione se restano svuotati di senso e appaiono solo come cattedrali del solipsismo delle rendite.
I partiti della sinistra hanno l’occasione e la responsabilità di aprirsi, di offrirsi come infrastrutture funzionali, come piattaforme abilitanti di queste esperienze e capacità, connettendole con la parte migliore del loro personale politico, ritrovando quel compito fondamentale di selezionare e formare classe dirigente reale e interna al popolo. Ne ricaverebbero una trasfusione di sangue benefica e rigenerante. Sicuramente molto più che il continuo scomporsi e ricomporsi dello stesso ceto politico ormai infiacchito, col fiato e la vista corti e canestri di parole vecchie, troppo vecchie per le nuove aiuole materiali e immateriali da calpestare.
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