Governo
Dalla Leopolda, diario a due voci
[di Cecilia Mussini e Giuseppe Izzo*] Il cielo è stato clemente, quasi fino all’ultimo e quasi dall’inizio. Era la prima volta che entravo in quella stazione, piazzata di sguincio e a ridosso della rotonda di Porta a Prato, un posto che, quando ci arrivi, fai fatica a decifrare se sia la fine del centro o l’inizio della periferia (e poi puntualmente ci rinunci, a decifrarlo). Su un pezzettino di tessuto urbano complicato e trafficato c’è questo posto, insieme monumento e spazio. Quando ci entri, passati i controlli di gendarmi seri e cortesi che ti guardano nelle borse con discrezione sbrigativa, pensi per un attimo alla location ideale per un rave techno. La scarna, spartana bellezza delle mura scrostate e i soffitti alti e ferrosi, suggestioni di archeologia industriale. È un posto bello per una festa. E a una festa, in genere, si partecipa provando a lasciare il resto del mondo fuori, solo che stavolta non è possibile. Forse è una festa, anzi lo è, ma c’è un mondo fuori da cui non si può prescindere, nemmeno se volessimo esercitare la più potente delle rimozioni. Ovviamente, non vogliamo farlo. Nemmeno il più ingenuo di noi, anzi proprio nessuno di noi pensa che una simile rimozione sia possibile. Quando tutta questa cosa è iniziata, il mondo fuori era quello da sfidare sognando senza illudersi, con la prepotenza del realismo e la sfacciataggine che faceva storcere il naso ai signorotti di orticelli per tesserati. Nel frattempo, però, quella stessa generazione di “ragazzini” realisti che ha provato a implementare una versione pragmatica e imperfetta di quel sogno si trova a doverci fare i conti, con la responsabilità che si è accollata. E, nel frattempo, son passati sei anni.
Evoluzione. È questa, forse, la parola chiave per indicare ciò che, alla Leopolda, è mancato. È mancata la capacità di rivendicare l’azione di governo in una prospettiva diversa da quella celebrativa; è mancata quella tensione che dovrebbe indicare sempre una strada, anche quando il percorso sembra già segnato. Neanch’io ero presente alle Leopolde passate, seguite sempre da lontano, in streaming, e questa “Terra degli uomini” è stata per me contemporaneamente scoperta e bilancio. Sì, mi sento parte di questa storia anche se ne conosco i protagonisti solo da dietro uno schermo; e sì, mi sento anche parte di chi, sulla spinta delle Leopolde passate, ha cercato di mettersi in gioco – nel mio caso, minimo, fare la segretaria di un Circolo alla periferia dell’impero.
Sono partita senza aspettative, ma con molta curiosità. Non mi aspettavo dal format – con o senza tavoli di lavoro – grandi momenti di elaborazione: non è quello il luogo. Eppure sì, dagli interventi che si sono succeduti sabato e domenica – ho perso il venerdì sera per colpa di un viaggio troppo lungo – avrei richiesto qualcosa di più. Il modello era chiaro: far vedere, in vari ambiti, da parte di persone diverse, che quello che il governo ha fatto ha un impatto sul “paese reale”. Dunque ecco il medico rientrato dagli Stati Uniti, ecco la paziente oncologica, ecco il padre che ha perso il figlio a causa di un pirata della strada; ecco l’operaia a rischio licenziamento causa crisi aziendale; ed ecco fioccare i “grazie al Governo”, che si ripetono sempre uguali e stucchevoli come i saluti a casa di chi viene inquadrato in TV (mentre il caso della crisi aziendale, poi annunciata in via di risoluzione da Stefano Bonaccini, sembrava tratto da un brutto copione di reality – con un retrogusto di bersaniana memoria, “salutiamo su questo palco Una Precaria Della Scuola!”, seppure a lieto fine).
Quando ci pensi, al tempo passato, agli appuntamenti che hai perso, alla frustrazione leggera che ti prende per la consapevolezza che tu, qui, tre, quattro o cinque anni fa non c’eri, perché stavi lavorando ad altri progetti e forse non avevi abbastanza tempo e le compagnie giuste, senti il peso di tutte le cose che sono cambiate, una vaga oppressione, come se invece che una storia politica fosse storia e basta, se non già geologia. Il mondo non rimane fuori, nemmeno quello che si ferma – solo fisicamente – in maniera composta a protestare fuori dai cancelli di questa stazione, alcuni ferrovieri che manifestano perché venga scongiurato il rischio della prescrizione per il processo per la tragedia avvenuta in un’altra stazione, nemmeno troppo lontano da qui. A Viareggio. Era il 2009, prima della prima Leopolda, un’era geologica fa. Eccolo il mondo, che inizia a presentare il conto a quegli stessi ragazzini, ed è giusto che sia così: perché son stati loro a rivendicare una responsabilità prima che un ruolo, a chiedere fiducia a un paese sempre più reale e meno statistico, con la sua sofferenza sempre meno aleatoria. Volevate impadronirvi del vostro destino? Eccovi accontentati… E ora è il momento di iniziare a raccontarci cosa ne avete fatto. Fair enough. E così entrano gli elefanti e si accomodano nel salotto e a noi tocca parlarne, di quegli elefanti. Mentre ci pensi, arriva un momento in cui ti dici che è una gran sfiga che questa per te sia la prima volta: che sfiga non esser venuto qui quando si doveva rivendicare il diritto alla responsabilità e non ora che bisogna rendicontare sul dovere della responsabilità. Ma tant’è. Siamo cresciuti, invecchiati pure un po’: non tanto, solo quello che basta per aggiungere un po’ di disincanto, che non guasta mai. Ragazzini sul palco, proprio letteralmente e fuori da qualsiasi metafora, con l’ugola entusiasta e vittime della fascinazione degli slogan, delle citazioni, delle iperboli. Jingle a tutto volume e passione sincera. Ingenuità, libertà, piccole concessioni a un kitsch evitabilissimo. Pare che Jules Renard una volta abbia detto: “Balzac è l’unico scrittore che abbia il diritto di scrivere male”. Ecco, in fila per la toilette, dietro a un signore emiliano che era il sosia moderno di Balzac, pensavo proprio a questo. La qualità è importante. Parafrasando Renard: non tutti abbiamo il diritto di fare le cose male. È un privilegio concesso a pochissimi, di certo non a molti di quelli che son saliti sul palco della Leopolda, durante lo scorso fine settimana. A testimonianza che invecchio, uno degli interventi che mi è piaciuto di più della mattinata di sabato l’ha fatto un certo Franco Bassanini, anche lui residuo di ere politico-geologiche in cui si era iniziato a fare cose belle e a farle per bene, solo che poi qualcuno ci aveva fatto smettere (e da allora non smetto mai di augurare a Bertinotti & co. tutto il peggio del peggio del peggio). Il mondo nel frattempo continua ad entrare in stazione.
Tra interventi decisamente imbarazzanti – Michela Di Biase, il cui video non è disponibile tra gli streaming di unita.tv, che invoca un sindaco romano per Roma, perché i romani sono stufi, e il sindaco deve poter localizzare Tor Sapienza se ci sono tumulti! – si nascondono anche i “cinque minuti” di partecipanti storici delle Leopolde: Cristiana Alicata, ora nel CdA di ANAS, o Mila Spicola, collaboratrice di Faraone al MIUR (ovviamente sono solo due esempi). I loro interventi sono stati senz’altro tra i più belli nei contenuti, ma hanno provocato in me una sensazione di buco temporale. Al centro delle loro parole – pur belle, pur condivisibili – non era la loro azione per il paese, non era il collegamento tra il loro percorso e la concretezza della loro azione politica. Alicata ci ha provato, iniziando a declinare in concreto il suo impegno in ANAS, ma lo ha fatto in modo sbrigativo, preferendo spostare l’attenzione su Roma e sulle responsabilità del PD nell’affare Marino (ma non sarebbe stato meglio parlare solo di una delle due cose, e farlo in modo più articolato, nel poco tempo a disposizione?); Spicola ha fatto un intervento di principio, senza mai nominare la riforma della scuola a cui pure lei deve aver lavorato (ma non sarebbe stato più interessante conoscere le sue proposte per migliorarla, per far diventare la scuola più simile a quell’umanesimo interculturale di cui si è voluta far promotrice nell’intervento?). Tra i contributi in questo senso più riusciti quello di Paola Concia, che ha combinato in modo intelligente il lavoro del Governo con un aspetto sconosciuto ai più, l’introduzione di un sistema duale di tipo tedesco nella scuola italiana grazie anche al lavoro sinergico delle Camere di Commercio: un esempio di cose fatte, di prospettive per il futuro, di pragmatismo e di teoria che ho raramente trovato in altri interventi (e sia detto ancora tra parentesi: non tutti gli oratori erano preparati alla platea, non tutti sapevano parlare davanti a un pubblico vasto e sempre più esigente. Concia è riuscita anche in questo, ma di quanti altri si può dire lo stesso?).
Abbiamo tutti la percezione, la prefigurazione del livore e della stizza che quello che viene detto qui dentro lascerà riverberare là fuori. Altri elefanti entreranno in salotto e dovremmo parlarne. Va bene così, parliamone. Raccontiamoci le cose, entriamo nei gangli, scoviamo il diavolaccio che si è nascosto nei dettagli delle quesioni ed esponiamolo a quelli che non l’hanno ancora capito, quanto è difficile fare tutto e farlo bene. L’urgenza di spiegare a tutti ciò che si è fatto negli ultimi 22 mesi sembra aver preso il sopravvento sul resto, sull’elaborazione e sulla tensione speculativa. In platea, nel frattempo, facciamo a fette ogni intervento, col nostro cinismo critico. Il sarcasmo e l’approvazione li distribuiamo, a mio avviso, equamente. E credo sia un buon segno. Sul palco si avvicendano persone coraggiose e visionari, giovani sognatori e venditori di possibiltà. In cinque minuti bisogna raccontare e offrire ricette. Non è semplice. Non ci riescono tutti. Ci sembra un po’ poco. E poi c’è il “potere”, i ministri che devono raccontare il loro lavoro di quasi due anni, rispondendo a domande preconfezionate. Alcuni lo fanno meglio di altri. Gentiloni, per esempio, ci riesce bene. Poletti a tratti fa incazzare, con il suo italiano rozzo e quell’atteggiamento di schietta brevità. I contenuti li conosciamo già quasi tutti, e infatti la sensazione è che possa essere molto più interessante, quello che succede qui dentro, per quelli che son rimasti fuori, per i critici o per i curiosi, per i simpatizzanti dubbiosi e per i livorosi ex, che hanno bisogno di cibare le polemiche quotidiane da mobilitazione continua.
Tra i ministri, quelli più marcatamente “leopoldini”, come Maria Elena Boschi, hanno potuto snocciolare un elenco di “proposte della Leopolda” realizzate dal Governo o in via di realizzazione. Qualche momento amarcord potrebbe insinuarsi negli elenchi, ma resta la sensazione – la certezza – che domande più cattive avrebbero dato la possibilità di entrare meglio negli ingranaggi della messa in atto dei buoni propositi, che per strada si sono (inevitabilmente) trasformati in qualcosa d’altro. Invece il tutto si è risolto in un teatrino con il retrogusto della propaganda, che è uscita dai pochi minuti in cui poteva permettersi di essere sguaiata (i video-spot sulle riforme, utilissimi come strumento comunicativo e molto ben fatti) per inficiare anche dialoghi potenzialmente assai più fruttuosi.
Sul megaschermo vengono proiettati i titoli di giornale considerati peggiori, sulla base dei risultati di un voto online. Alcuni sono di una bruttezza oscena, di una falsità becera e grottesca. Guardandoli, mi immagino le polemiche che seguiranno a questo giochino. In un paese in cui la stampa porta sulle spalle la responsabilità deontologica di alcuni degli scempi più atroci mai visti in Occidente, saranno proprio i giornali a stracciarsi le vesti, a urlare all’attentato alla libertà di stampa. Nella mia testa parte un countdown. E infatti dopo un po’ gli editoriali indignati iniziano a fioccare.
Il peccato più grave, però, è stato un altro. Parte un video: una scuola coranica, l’Imam insegna che Hallah non ama la musica. Per me, che non avevo seguito l’episodio di Vicenza, sembrava una classe di catechismo particolarmente bigotta. E improvvisamente delle voci femminili urlano Azzurro nel microfono e parte il Karaoke: perché noi siamo diversi, noi amiamo la musica! Evviva il Karaoke, evviva la cultura occidentale! In un contesto così dispersivo, in cui non c’é tempo né modo di approfondire la scena della scuola coranica, mi è sembrata davvero una furbata para-razzista. Non si fa. Non si fa così. E non si fa così qui, alla Leopolda.
Nonostante questa sfilza di critiche, da Firenze siamo tornati contenti, carichi, addirittura felici. Ha contribuito certo il Renzi conclusivo, capace di parlare alle persone oltre (e prima) che ai militanti, e capace di trasmettere un senso di collettività e di urgenza che raramente ho sentito così vivo in un comizio. Ha contribuito la sensazione – bella, sana, consolante ed energizzante al tempo stesso – di essere davvero dentro a una fetta di “paese reale”: la ragazza con il rolex accanto a bambini e vecchietti, trentenni “normcore”, un defilato hipster dai capelli verdi, qualche cravatta e tante camicie.
Non è un caso che le cose più belle e interessanti, quelle più profonde ed emozionanti, succedano ai margini della kermesse, nelle sale attigue, nelle pause, nei tavoli improvvisati dove iniziamo a parlare dei progetti futuri, fra noi, felici di aver reincontrato amici che non vedevamo da un po’, e contenti di averne conosciuto di nuovi. A tratti riesco a percepire il senso che deve aver avuto quest’avventura quando è iniziata, e ripenso che sia un peccato non esserci venuto prima. Uno dei poster appesi in giro recita: “Un solo vero lusso esiste ed è quello dei rapporti umani”. Ripenso a quello che è la politica per me e mi ci ritrovo. Mi ritrovo nelle obiezioni che muovo agli altri, nelle obiezioni che gli altri, i miei compagni di strada, muovono a me. Penso per un attimo che prendersi la responsabilità di governare sia anche questo: ragionare e costruire dei rapporti umani. Lo dice anche lui, Renzi, durante il suo intervento finale, con la solita bravura tutt’altro che misurata, con la sfrontatezza e i movimenti ora spontanei ora studiati, con la sbruffonaggine da ruffianone di talento con cui conquista le platee.
Tornando, 800 km in macchina, in quattro, cantavamo De André, il vento che non si ferma, la vita che va avanti e la sensazione di comprendere meglio le ragioni dell’impegno. Alla fine, alla fine di tutto, va bene così.
*In questo dialogo a due voci, il corsivo è di Giuseppe Izzo, il tondo di Cecilia Mussini
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