Governo

La crisi nel corpo: volti, gesti, di una politica allo sbando

23 Agosto 2019

Superando per una volta le moltissime parole, dette, sussurrate, millantate, questa crisi di governo si offre senza pudicizia ai nostri occhi, tracciando una narrazione fatta di corpi, di gesti, dove anche la più rudimentale prossemica può interpretare l’affresco funerario di una politica allo sbando. Unendo i volti e i gesti di queste giornate convulse, collocandoli negli spazi, associandoli solo in ultima istanza alle parole, si ottiene una rappresentazione tragicomica che è sì collocata in un preciso momento storico, ma ne sintetizza e riassume parecchi e rischia di annerire anche il domani.

L’esegesi del quadro sberciato della crisi più farsesca della storia repubblicana, non può che partire dal giorno delle dimissioni del Presidente del Consiglio con il triangolo erotico stretto, o meglio dire “costretto” in un trittico asfittico forzato, senza spazio di movimento.

Mentre Giuseppe Conte legge pagina dopo pagina il discorso che lo riabilita agli occhi degli smemorati italiani come statista senza macchia e senza paura, il ministro dell’interno, il Capitano, si trasforma in un
susseguirsi di emoticons viventi: sorride, occhieggia, sbuffa, si incazza, si rassegna, si perplime. È nell’aula del Senato, ma per lui è il divano di casa; insolitamente scomodo, se potesse allungare i piedi, e agguantare una birra ghiacciata lo farebbe. Alle sue spalle, anche loro assiepati, come ultrà allo stadio, i suoi (il possessivo
qua va letto in senso stringente) ministri e sottosegretari. Il bacio del rosario in favore di una e cento telecamere è solo un passaggio di questo rigurgito di uomo qualunque, che eleva la sua cafonaggine a vanto e a bandiera da sventolare in faccia alla storia e alle istituzioni.

Il lato rivelatosi inopinatamente debole, femmineo del triangolo, quel Luigi Di Maio che, solo qualche mese fa, cedendo al fascino del balcone, alzava il pugno con ghigno luciferino convinto di aver sconfitto la povertà, resta composto, quasi sempre immusonito, come un fanciullo che cova rancore per aver subito il furto delle biglie dall’amico del cuore. Si riprenderà uscendo dalle consultazioni con il Presidente della Repubblica, sciorinando i dieci punti per ripartire, di cui il primo, manco a farlo apposta è il taglio dei parlamentari (con un paese sull’orlo della recessione, tu chiamale se vuoi priorità). Tutto lascia credere che anche di fronte a Mattarella avrà esordito dicendo che governare gli ha fatto perdere un sacco di consensi e di click su Roussou, ma che lui è pronto a rimanere sulla nave senza che De Falco glielo intimi, purché si faccia come dice lui.

Ci sono poi caratteristi un tempo protagonisti come Berlusconi con le sue vestali ormai attempate, Bernini e Gelmini, che testimoniano come il tempo che passa ingiuri non solo gli zigomi ma soprattutto la fama,
ma sono personaggi che riempiono il quadro senza qualificarlo come del resto fa Meloni orfana di photoshop.

Anche il senatore semplice di Rignano nel suo affannoso cercare di guadagnare tempo per inseguire il suo ennesimo volo di vanagloria, dopo una fiammata di protagonismo di certo corroborante, è epigono a se stesso e resta una figura (o figuro che dir si voglia) in ombra.

Sembra comporsi l’istantanea impressionista di un suk mediorientale, con i suoi odori aspri, e le sue parole incomprensibili se non fosse per la presenza di due soggetti che si stagliano e risaltano pur in posizioni
diverse.

Mattarella finisce la fatica delle consultazioni e dopo due ore esce. Non saluta e inizia a leggere. La voce ferma si incrina in tutti i colori della irritazione. Il viso è una maschera immobile, ma gli occhi azzurri fiammeggiano. Spiega che questa crisi nata per lo strappo “in polemica” di una forza di Governo può risolversi con elezioni o con un nuovo Governo che duri, perché oltre i like e le dirette facebook, c’è un paese allo sbando e allo stremo, un’economia stagnante, un aumento dell’Iva che, se non scongiurato, vorrebbe dire un nuovo 2009.
Le elezioni sono un passaggio non dovuto, perché siamo una repubblica parlamentare, a dispetto dei tanti inciuciologi a corrente alterna, una strada possibile cioè ma da non imboccare a cuor leggero.
A quasi ottanta anni, questo uomo ricurvo, è rimasto da solo a difendere quello che per tanti è diventato esecrabile, indifendibile: il sistema di regole, di pesi e contrappesi, di norme e prassi non scritte, che disciplina la nostra esistenza dal dopoguerra ad oggi, in una parola, la Costituzione. Lo fa titanicamente frapponendo il suo corpo esile alla marea montante dello sfascio generale.

Ma c’è anche altro nell’affresco della crisi ferragostana, un collettivo di volti anonimi che, in un gioco prospettico resta sullo sfondo e lo riempie: siamo noi, è il popolo italiano, che è protagonista ma anche autore più o meno inconsapevole di questa brutta crosta. Quel popolo incattivito e sfiduciato che odia perché è più agevole odiare che sperare. Quel popolo che come una spugna ha assorbito il progressivo sfarsi della cosa pubblica, fra promesse e prese per i fondelli, mancate risposte ad una crisi che da economica è diventata ormai largamente spirituale, identitaria. Quel popolo che commettendo errori madornali di semplificazione, non riconosce più alcuna autorità sia essa incarnata da un insegnante, da un politico o da un intellettuale, ma solo atti di autoritarismo senza autorevolezza, che ritiene urticante la parola “responsabilità” che scambia la “libertà” con il fare sempre comunque come gli pare e il  farla franca. Qualcuno glielo ha insegnato, con maieutica feroce ha preso il peggio del suo DNA e lo ha elevato a legge dello stato, qualcuno, o forse più di uno, gli ha spiegato che aggrumarsi contro l’altro come in una eterna finale dei Mondiali, fa stare meglio, fa dimenticare le pezze al culo e la vita vera. Quel popolo che siamo tutti noi, con diversi gradi di connivenza e coinvolgimento, che ha scelto di tirare avanti da mattina a sera fra un commento su facebook e la rata del mutuo da pagare, rinunciando al passo lungo di una visione di futuro migliore. Ha di fatto scelto di giocare (anche pesante) ma di non mettersi in gioco.

Di questo popolo, di questa “gente”, la politica è responsabile come del resto il popolo, “la gente” è madre di questa politica in un circuito di reciproca alimentazione difficile da scardinare. E allora oltre le immagini, debbono forse tornare le parole che possono e debbono ricomporsi in un linguaggio che unifichi e non divida, complichi e non semplifichi, rassicuri e non spaventi, per provare a ritrovare un senso, il senso della realtà per quanto faticosa essa sia, per tentare di chiudere un capitolo che da comico rischia di farsi tragico e aprirne un altro. Nuovo.

 

 

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