Governo
Cosa dovrebbe fare Di Maio sul jobs act
Subito dopo il giuramento, il neo ministro Luigi Di Maio ha esordito dichiarando che il jobs actandrebbe rivisto per combattere la precarietà.
Se ho compreso il pensiero del ministro pentastellato, combattere la precarietà significa arrestare il proliferarsi di contratti a termine, come è stato verificato dall’Istat e dalle puntuali analisi del mondo del lavoro.
Appare paradossale ma la riforma menzionata da Di Maio non è, a voler essere rigorosi, (e spero non me ne voglia il giovane, ma con tanta voglia di fare, neo ministro) la causa dell’aumento dei contratti di lavoro precari bensì un provvedimento deciso con urgenza un anno prima della promulgazione dei decreti legislativi emanati in forza del jobs act ovvero il decreto legge che porta il nome del predecessore di Di Maio, il tanto contestato Giuliano Poletti.
Con il decreto legge che ha preso il suo nome e quindi ne certifica la paternità, Giuliano Poletti ha liberalizzato il contatto a termine senza ispirarsi a un valido criterio (se non quello del liberalismo puro) e determinando così in partenza il depotenziamento del decreto legislativo, emanato un anno dopo, che con agevolazioni contributive e normative, sponsorizzava invece il contratto di lavoro a tempo indeterminato.
Giocoforza, il provvedimento Poletti non poteva essere eliminato (ma questa è la mia personale convinzione) dal “papà del Jobs act” interpellato, successivamente, dal Governo Renzi per il riordino e la semplificazione dei contratti di lavoro. Avrebbe significato una palese messa in discussione del Ministro Poletti che nel governo Renzi godeva della massima fiducia.
Abbiamo convissuto in questi anni in una situazione normativa schizofrenica, disconosciuta e omessa dal precedente governo per ovvie ragioni di immagine politica ma che ora non può più essere negata e va affrontata seriamente.
Rendiamoci conto che il jobs act è partito con una palla di ferro al piede, il decreto Poletti, che di fatto ha agevolato quella precarietà che il jobs act aveva in animo di ridurre.
Poco prima della campagna elettorale, Maurizio del Conte, attuale responsabile delle politiche attive del lavoro, tanto a cuore del neo Ministro, aveva ipotizzato un intervento normativo finalizzato ad arginare l’aumento dei contratti a termine. Anche se la proposta di ridurre il periodo della loro durata complessiva (da 3 anni a 2 anni) a mio avviso aveva solo il merito di essere diplomatico (correggeva l’unica disposizione non emendata da Poletti) ma non avrebbe risolto adeguatamente il problema che è sotto gli occhi di tutti: l’aumento indiscriminato dei contratti a temine.
Luigi Di Maio deve quindi come prima cosa correggere il provvedimento del suo predecessore, ponendo ragionevoli limiti alla stipulazione dei contratti a termine o, se crede, restaurando quanto di buono a riguardo hanno fatto il governo Monti e Letta. E’ il primo passo da fare prima di rivedere il jobs act nella sua interezza.
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