Governo
Cont’è stato: il fallimento dei 5 Stelle e il loro vuoto che nessuno riempie
La crisi è aperta. Alla Camera i deputati del Movimento 5 Stelle hanno votato la fiducia al Governo, ma non per il Decreto Aiuti; al Senato, invece, dove il voto è unico, i 5 Stelle sono usciti dall’aula. Benché questo non abbia boicottato il voto, Draghi ha dato le dimissioni, un po’ out of the blue, benché avesse già avvisato che senza il Movimento non avrebbe considerato il proprio governo pienamente legittimato.
La reazione di Draghi potrebbe essere definita pretestuosa, se non fosse che la crisi era in atto sottotraccia già da tempo, e stava logorando la capacità di azione del premier: prima si è manifestata nell’insofferenza di Salvini, ora in quella di Conte, comunque è bastato un singolo segnale di cedimento perché tutto crollasse; evidentemente il malcontento aveva lavorato carsicamente, e ora che si valuta la possibilità di ricostruire qualcosa la componente di maggioranza del Centrodestra ha blindato la crisi stessa, proiettandosi verso il voto anticipato.
Conte non se la sta passando bene, sottoposto com’è all’accusa – pesantissima – di aver fatto cadere il Governo attuale in un momento molto delicato per il Paese. Bisogna però considerare la crisi del Governo Draghi in un quadro più generale di ristagno delle leadership populiste a livello europeo e occidentale, dove la rivendicazione su temi sociali si è agglomerata a un atteggiamento anti-sistema. Si tende ad analizzare quello italiano come un passaggio tutto nostrano, connesso all’endemica incapacità della nostra classe dirigente di portare a termine il percorso di realizzazione di un programma, ma il Movimento 5 Stelle da questo punto di vista va a braccetto con Podemos, France Insoumise e con una parte degli stessi Democratici negli US.
L’equilibrio tra Movimento 5 Stelle e PD non è immediatamente decifrabile; per molti è ancora del tutto oscuro, nel suo rimbalzare tra questioni interne ed esterne, tra nessi causali e temporali, rimandi e connessioni tra fatti vicini e lontani.
Dopo che il PD è uscito pesto dal referendum del 2016 e in generale dall’esperimento della third way renziana (Natale, 2018); dopo che il M5S ha abbandonato definitivamente la vision di portare la democrazia diretta in Italia (D’Alimonte, 2019); dopo che la pandemia ha congelato la politica come politics (Vampa, 2021), inaugurando una via della gestione ordinaria dello straordinario come solo orizzonte possibile; dopo tutto questo, l’ascesa di Conte ha consentito a PD e M5S di arrivare a un equilibrio funzionale, a quel confliggere cooperando tipico delle coalizioni (Vercesi, 2013); un tacito accordo di complementarietà, per cui tutte le battaglie lasciate indietro dal PD in ambito sociale e ambientale se le è intestate proprio il Movimento.
Una pace confortante, arrivata dopo anni in cui PD e M5S si erano fatti più di uno sgarbo, a livello mediatico (“Parlateci di Bibbiano”), ma anche di Enti Locali, soprattutto rispetto al tema dei rifiuti: se Virginia Raggi aveva avuto vita difficile quando cercò di mettere mano alla filiera dei rifiuti romani, Chiara Appendino negò l’accesso dei rifiuti siciliani per cui Rosario Crocetta stava passando qualche guaio.
Lo scisma di Di Maio ha ravvivato una fantasia palingenetica, per una leadership e un partito che, un compromesso dopo l’altro – dall’invio di armi all’Ucraina al rischio di privatizzazione dell’acqua – è ormai irrimediabilmente logorata; per non parlare della credibilità stessa di Giuseppe Conte, il quale aveva già superato non indenne le critiche di Beppe Grillo, che lo aveva definito incapace di gestire processi e organizzazioni, ma poi ha ricevuto poi l’umiliazione mediatica di un Draghi che avrebbe chiesto di rimuoverlo.
Quale occasione migliore di una battaglia contro l’inceneritore a Roma per rimotivare quei pochi rimasti lungo le barricate fedeli al Movimento? Per i 5 Stelle laziali il tema dei rifiuti è sempre stato oggetto di attenzione: hanno contribuito alla costruzione di dossier, hanno seguito l’evoluzione dei casi, pedinato le vicende della politica.
Il rapporto ISPRA annualmente rappresenta una situazione in evoluzione lenta e disomogenea, con territori virtuosi e altri disastrati. Proprio tra quelli disastrati c’è Roma, che già nella prima decade del 2000 faceva scalpore, con la discarica di Malagrotta, Manlio Cerrone, le relazioni pericolose dell’AMA, le Partnership Pubblico-Privato di carattere più collusivo che collaborativo: il caso romano è stato uno dei terreni di coltura del successo grillino, insieme ad altri dossier complicati come l’Ilva, la TAV, che hanno fatto montare un senso di disgusto del potere capace di cementare le esperienze di comitati in tutta Italia.
Il problema è che le soluzioni immaginate non sono state in piedi, mai. “Aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno” si è rivelata un’analogia insidiosa, che oltre che ad alimentare visioni paranoidee non ha fatto. La pars construens del M5S si è attuata ricalcando l’immaginario vituperato del compromesso (per Beppe Grillo sinonimo di inciucio), con un Di Maio che oggi potrebbe tranquillamente rappresentare la retroguardia dell’Italia dei Valori più che l’esponente di un movimento anti-politico. La pars destruens non è mai entrata in funzione, vuoi perché il potere di pentastellati ne ha sedotti diversi, vuoi perché è davvero difficile indurre esogenamente la rivoluzione in un sistema autopoietico e barricato come la politica italiana.
La gestione dei rifiuti in Italia non è solo un rischio dal punto di vista ambientale, ma anche politico; così gli altri dossier alla cui ombra sono cresciuti i 5 Stelle, incluso il capitolo sulla povertà, che non è stata eliminata dal Reddito di Cittadinanza, semmai contenuta, come afferma I.Stat, ma in modo del tutto preterintenzionale, seguendo i tracciati della serendipità. I 5 Stelle si sono intestati questioni troppo complicate e intricate perché possano essere affrontate in un solo ciclo politico (che ha un’emivita di pochi anni), da una sola persona, con un solo approccio; questioni per cui l’approccio monofattoriale, sia nell’analisi che nell’intervento, è fallimentare in partenza.
La democrazia è fatta di ambivalenze. Non significa accettare in continuazione compromessi e rinunciare alla propria identità, ma saper stare nella complessità; una postura che poco si sposa con la logica e con l’etica grilline, basate sulla presunta superiorità di chi si esprime con radicalità e coerenza. Una contraddizione anche minima può costare cara a chi stia (o dichiari di stare) in una posizione di superiorità morale.
La promessa di rinnovamento della politica è stata ampiamente tradita dai 5 Stelle; nessun rituale del potere è stato intaccato, i network – definiti semplicisticamente “caste” – sono ancora tutti là, e ora ne fan parte anche loro. Il tentativo di Conte di tornare alla coerenza delle battaglie dell’origine è risultato del tutto inadeguato e inopportuno, dati i tempi. Ciò che rende però amaro il momento attuale è constatare che nessun altro partito ha avuto il coraggio di intestarsi le battaglie per i temi sociali e ambientali come andrebbe fatto: con rispetto per la complessità, tempo e pazienza, verve dove serve e non a prescindere; avviando processi reali di condivisione con le comunità locali, riavvicinando i lembi della ferita che ha lacerato il tessuto sociale, riportando i cittadini comuni a fidarsi di quelli che hanno intrapreso la via della politica.
Natale, P. (2019). The three perspectives of the left and the gradual loss of its electorate. In The Italian General Election of 2018 (pp. 97-119). Palgrave Macmillan, Cham.
D’Alimonte, R. (2019). How the Populists Won in Italy. Journal of Democracy, 30(1), 114-127.
Vampa, D. (2021). The 2020 regional elections in Italy: sub-national politics in the year of the pandemic. Contemporary Italian Politics, 13(2), 166-180.
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