Governo
Consulta e default sulle pensioni, la vittima è Montesquieu
Sostiene il presidente della Corte Costituzionale Alessandro Criscuolo che la Consulta valuta le leggi e non i governi. Ed è una osservazione ineccepibile: questo prevede la Costituzione all’articolo 134, punto. Il resto sono speculazioni, e per giunta speculazioni troppo spesso dettate esclusivamente da modeste ragioni di posizionamento tattico sulla scena politica. Insomma, poca cosa.
Eppure, di questi tempi quella di Criscuolo appare una osservazione ineccepibile soprattutto nel grave sottinteso al quale sembra alludere: la oramai profondissima crisi nel rapporto tra i poteri dello Stato che in venti anni ha portato a una inavvertita disarticolazione del sistema istituzionale, con buona pace dello stesso Montesquieu. Ed è questo l’orizzonte all’interno del quale si dovrebbe misurare anche ciò che è accaduto attorno alla decisione sulle pensioni presa dalla Consulta, a partire dalle tante curiose tesi su ciò che la Consulta avrebbe dovuto o potuto fare e di cui dava conto l’ineccepibile analisi di Umberto Cherubini pubblicata di recente su queste pagine.
In quell’articolo si partiva dall’idea che il governo Monti avesse dichiarato, sebbene in modo non esplicito, il default sulle pensioni, circostanza che la Consulta non avrebbe saputo interpretare con la propria sentenza. Data questa premessa, la domanda che a rigor di logica sorge è se la Consulta possa o meno decidere su una circostanza così abnorme trattandola come fosse un semplice decreto. E la risposta è quella che il Corriere della Sera ha attribuito a Criscuolo: la Corte giudica le leggi, vale a dire svolge un esame tecnico; soltanto questo e niente altro che questo, ché altro non potrebbe fare, a meno di non voler esorbitare dai limiti imposti dalla stessa Costituzione. E appare allora francamente indifendibile il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan il quale, dalle pagine di Repubblica, ha sostenuto che «la Consulta doveva valutare i costi della sentenza»; che sarebbe come chiedere a un arbitro di calcio di tener conto, nel fischiare o meno un calcio di rigore, anche delle conseguenze che quel fischio potrebbe avere sull’andamento dei titoli azionari nel caso di una squadra quotata in borsa.
Insomma, non è la Consulta bensì la politica a doversi fare carico delle scelte, così come è alla politica che le scelte già fatte vanno imputate. E, soprattutto, è alla politica che andrebbero imputate anche le scelte non fatte, ossia l’inazione la quale, in questi ultimi venti anni, ha prodotto le condizioni affinché la crisi politica dei primi anni Novanta del Novecento si trasformasse in breve tempo in una crisi istituzionale vera e propria; e così grave che ha mandato in soffitta addirittura Montesquieu il quale, nello Spirito delle leggi, sosteneva che, «perché non si possa abusare del potere, bisogna che, per la disposizione delle cose, il potere arresti il potere». Ebbene, ciò che è venuto meno a causa della inazione della politica, è proprio la separazione tra i tre poteri sui quali si fonda il modello di Stato liberale, provocando uno sconquasso che, in ultima analisi, è la causa anche dello sfasamento tra Esecutivo e Consulta che ha ben colto Cherubini. Vediamo rapidamente perché e come ci si è arrivati.
Si può partire dall’Esecutivo che, nell’ultimo ventennio, è stato quello che tra i tre poteri tradizionali ha travalicato in modo più evidente il confine assegnatogli dalla tradizione liberale, invadendo quasi del tutto il campo riservato al Parlamento. La dimostrazione di ciò è nei numeri, i quali sono impietosi. Si potrebbe dire del massiccio ricorso alla fiducia con cui i governi hanno sempre più esautorato il Parlamento della propria funzione tradizionale ma, prima ancora, va detto di come nel tempo sia molto cambiato il modo di produzione normativa e si sia passati da una produzione basata soprattutto sulla legge a una produzione basata in massima parte sulla decretazione d’urgenza o delegata; e questo con una accelerazione evidente in corrispondenza dell’avvento della cosiddetta seconda Repubblica. Lo dimostra chiaramente – se è consentita una auto-citazione dal saggio Hanno ammazzato Montesquieu! – l’analisi statistica della intera attività parlamentare dalla prima legislatura sino a quella scorsa. Per dare una idea di ciò che si vuole sostenere, basti riflettere su un dato soltanto: dei 328 atti normativi prodotti dal Parlamento nella XV legislatura, soltanto 13 possono essere ricondotti integralmente al Parlamento. È evidentemente un dato umiliante per il soggetto che più di tutti dovrebbe essere depositario della volontà popolare, ossia lo stesso Parlamento, essendo l’unico, tra i tre poteri, ad essere eletto direttamente dal popolo.
Certo, i decreti verranno poi convertiti in legge e un margine, seppur minimo, di intervento dovrebbe rimanere alle Camere; eppure, anche in questa forma indiretta, il loro intervento è sempre più limitato giacché la conversione avviene sempre più spesso a colpi di maxiemendamenti e, soprattutto, a colpi di fiducia. Vale la pena di ricordare, ma è un esempio tra mille possibili, quel collegato alla Finanziaria del 2008 che venne approvato con un triplo voto di fiducia, pur trattandosi di una legge di conversione di un decreto legge!
È stata proprio la Corte Costituzionale a evidenziare i pericoli che tutto ciò comporta per la tenuta dell’architettura istituzionale, e lo ha fatto con un paio di sentenze da considerare davvero storiche: la prima del 1996, la seconda del 2007. Al di là delle questioni tecniche relative al complicato rapporto tra fonti di diritto, ciò che qui interessa dire è che la Corte in quella sede si è spinta addirittura ad affermare il rischio che questo modo di procedere oramai consolidato possa aver provocato nei fatti una mutazione della forma di governo del nostro Paese. Naturalmente, di tutto ciò nel dibattito pubblico non è passato nulla seppure, come è noto, anche il Quirinale è stato più volte costretto a intervenire sul tema del rapporto tra le fonti del diritto. Per tutti, valga la inusuale diffusione di una nota da parte del Colle in occasione della approvazione del pacchetto sicurezza nel 2009, per non dire delle frizioni sotterranee con l’Esecutivo sulla gestione del mai varato decreto con il quale il governo pretendeva di risolvere la vicenda di Eluana Englaro.
Ma non è stato soltanto l’Esecutivo in questi ultimi vent’anni a travalicare i limiti del campo ad esso riservato dalla Costituzione e dalla tradizione liberale. Lo stesso ha fatto il potere giudiziario. Non si deve però pensare alla polemica che in questi anni ha visto la magistratura protagonista, spesso contrapposta proprio al potere Esecutivo; questa semmai è soltanto una delle conseguenze del ruolo nuovo e da protagonista assoluto della scena assunto dal potere Giudiziario in questi anni, peraltro molto spesso suo malgrado. Ciò è evidente soprattutto quando in ballo ci sono state questioni border line, come ad esempio quelle relative ai diritti civili.
Un ex presidente della Consulta qualche anno fa osservava che si era ormai di fronte al rischio di uno svuotamento dei poteri del Parlamento. E spiegava che da un lato le regole le andava facendo sempre più l’Esecutivo con la decretazione d’urgenza, dall’altro la magistratura andava definendo i nuovi diritti per mezzo delle proprie sentenze, mentre il potere Legislativo rimaneva sullo sfondo, quasi annichilito. Questa tendenza si è sempre più accentuata. L’inazione del Parlamento, la paura di prendere decisioni su materie delicate, addirittura l’incapacità strutturale di prenderle, hanno infatti costretto la magistratura a intervenire su materie che sarebbe stato meglio fossero regolate con legge. Costretto, certo: come è noto un giudice, soprattutto un giudice che decide su questioni di diritto privato, non può scegliere di non decidere, come invece possono fare i politici. E i cittadini, trovando sempre meno risposte dalla politica, hanno iniziato a rivolgersi ad altri, e soprattutto ai magistrati. Si pensi alle tante decisioni della magistratura in tema di convivenze o fine vita, tutte prese nel vuoto prodotto dalla inazione del Parlamento.
In questo modo si è inaugurata una sorta di via giudiziaria ai diritti civili, strada necessaria ma anche pericolosa. E pericolosa questa strada lo è stata anche perché, nell’era post-Tangentopoli, alla magistratura una parte sempre più ampia della società ha finito per attribuire una funzione salvifica e moralizzatrice che non trova nessun corrispettivo nelle leggi o nella Costituzione. Ciò, come è evidente, ha poi finito per aprire la strada agli eccessi dei quali la magistratura si è resa responsabile negli ultimi venti anni. E paradossalmente, di questo protagonismo dei magistrati, e di come si sia in un certo senso smarrita la misura, sono dimostrazione le stesse affermazioni attribuite tra virgolette dal Corriere della Sera al presidente Alessandro Criscuolo e al giudice Giuliano Amato circa il voto nella decisione sulle pensioni, dichiarazioni davvero inaudite, tanto che l’annoso dibattito sulla pubblicità della dissenting opinion a proposito del voto dei giudici in camera di consiglio fa oramai soltanto tenerezza. Ma tant’è, e a stupirsene si rischia la figura degli ingenui.
Infine, c’è il Parlamento il quale, contrariamente a potere Esecutivo e Giudiziario, ha imboccato la strada opposta, divenendo sempre più irrilevante, prima politicamente, infine addirittura funzionalmente. Ciò è accaduto per molte ragioni, alcune delle quali sono state ricordate poco sopra, a partire dal rafforzamento dei poteri Esecutivo e Giudiziario. Ma ce ne sono altre che vanno seppur sommariamente ricordate. Alcune sono ragioni tecniche: la riforma del titolo V della Costituzione e la partecipazione alla Ue sono causa di devoluzione di funzioni che hanno alleggerito il ruolo delle Camere. Inoltre, una tendenza non soltanto italiana alla cosiddetta “presidenzializzazione” della democrazia parlamentare ha prodotto un ulteriore indebolimento del Parlamento. Anche la fine della guerra fredda in qualche modo ha intaccato la centralità del Parlamento: si pensi alla prima Repubblica e alla conventio ad excludendum nei confronti del Pci che costringeva però a riportare il dibattito politico all’interno del Parlamento, se non altro per ragioni di sicurezza interna e di carattere internazionale, evitando lo scivolamento della sinistra al di fuori dell’arco costituzionale. Non è un caso che all’epoca la presidenza della Camera venisse riservata a una personalità della opposizione mentre questa necessità è venuta meno con la seconda Repubblica, quando, per di più, il Parlamento inizia a perdere la sua funzione politica, anche perché alla tradizionale contrapposizione tra maggioranza e opposizione, le quali insieme entravano in relazione con il governo all’interno della fisiologica dinamica Esecutivo-Legislativo, si è sostituito un nuovo genere di dinamica che vede la maggioranza oramai mera appendice del Governo, quasi a formare con esso un copro unico, con soltanto l’opposizione – o ciò che ne rimane – a identificarsi con lo stesso Parlamento.
C’è infine da considerare la legge elettorale. Sull’argomento non c’è molto da aggiungere a ciò che sinora è stato da molti abbondantemente scritto. Si può però evidenziare che, in questo contesto, il Porcellum ha funzionato come norma di chiusura di sistema a garanzia del potere del partito di maggioranza, e dunque del potere Esecutivo, nei confronti degli altri soggetti in campo, per cui si è arrivati al paradosso – messo in evidenza dagli osservatori più attenti – per cui, sebbene la Costituzione preveda che il governo resti in carica sino a quando gode della fiducia del Parlamento, in questa democrazia parlamentare presidenzializzata e con un Parlamento irrilevante, avviene esattamente il contrario: sono i parlamentari, e quindi il Parlamento, a rimanere in carica sino a quando godono della fiducia del governo o, per dirla più prosaicamente, sino a quando al governo conviene, nonostante sia il Parlamento e non il governo ad essere eletto dal popolo. Il risultato è un regime a-parlamentare o, detta altrimenti, una democrazia senza popolo.
Se questa rapida cavalcata nella storia istituzionale degli ultimi venti anni corrisponde a verità, è chiaro che la crisi che il Paese sta vivendo non è una crisi politica ma, appunto, una vera e propria crisi istituzionale. Ed è evidente che lo sfasamento ben colto da Cherubini tra Esecutivo e Consulta a proposito della decisione sulle pensioni è soltanto il sintomo di una patologia molto più grave. Purtroppo, se questa malattia non verrà diagnosticata con chiarezza, se insomma non si prenderà atto che la malattia non ha aggredito i partiti ma le stesse articolazioni della architettura istituzionale, e se, infine, la politica non sarà in grado di riconquistarsi un ruolo autorevole sulla scena riportando il Parlamento in equilibrio con gli altri due poteri, il pasticcio sulle pensioni è forse il minore tra i mali che possiamo aspettarci.
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