Governo
chi vince e chi perde il 4 dicembre
La moda dei “confronti all’americana” tra i sostenitori del sì e del no, insieme alla strategia “all’americana” imposta ai sostenitori del sì dal pagatissimo guru Jim Messina (cioè delegittimare personalmente l’avversario anziché confutare le sue tesi) sta creando nello sfibrato pubblico del teatrino referendario la sensazione che il voto del 4 dicembre sarà una resa dei conti con un vincitore e uno sconfitto. Anzi, un vincitore – Renzi – e molti sconfitti: il variegato “mondo del no”, così plasticamente illustrato dall’assemblea convocata qualche giorno fa da Massimo D’Alema, formato da vecchi e nuovi politici di ogni orientamento, intellettuali, giornalisti e “professoroni”.
E’ questo l’esito paradossale di una procedura di revisione costituzionale completamente opposta agli intenti dei Padri Costituenti, i quali approvarono la Carta del 1948 con una larghissima e trasversale condivisione e auspicarono che altrettanto accadesse per le successive revisioni (si noti che l’art. 138 parla di “revisioni” e non di riforme: segno che i cambiamenti andrebbero apportati con gradualità e senso della misura, senza stravolgere l’impianto originario).
La vicenda è partita malissimo già dalla prima lettura al Senato: in Prima Commissione erano disponibili due testi tra i quali scegliere il “testo base” sul quale la Commissione e l’aula avrebbero poi lavorati. Uno era il disegno di legge Renzi-Boschi, di iniziativa governativa; l’altro era il ddl Chiti et. al., di iniziativa parlamentare. La differenza fondamentale tra i due era nel meccanismo di elezione dei futuri senatori: eletti indirettamente nel primo caso, direttamente dai cittadini nel secondo. In Prima Commissione la maggioranza dei senatori propendeva per la seconda ipotesi; ma alcuni di loro (Mineo e Mauro) furono rimossi dal loro incarico dai rispettivi partiti, in modo da ribaltare i rapporti di forza; così, la riforma fu costruita sulle fondamenta del ddl governativo.
In questa prima fase, comunque, il ddl Boschi poteva contare su un sostegno relativamente ampio, grazie al “patto del Nazareno” che assicurava il voto favorevole di un grande partito di opposizione, Forza Italia. Dopo l’elezione del Presidente Mattarella, però, il patto si incrinò e il partito di Berlusconi passò all’opposizione: da quel momento, la riforma ha proceduto grazie al voti di una maggioranza poco più ampia della coalizione di governo.
Lungo tutta la discussione, la maggioranza a favore ha imposto, sia alla Camera che al Senato, diverse forzature dei regolamenti parlamentari (sedute fiume, emendamenti “canguro” per annullare gli emendamenti, l’irrituale presenza in aula del Presidente del Consiglio durante le votazioni) per assicurare il procedere spedito della riforma del ministro Boschi. Gli emendamenti accolti sono stati pochi e comunque sempre “approvati” dal governo, senza che in aula si sia quasi mai potuta formare una maggioranza più ampia di quella, abbastanza risicata, che l’ha approvata nella sua versione finale.
Ecco perché una riforma che avrebbe dovuto essere largamente condivisa (anche nelle intenzioni dei suoi promotori, se si deve credere alle parole con le quali Renzi giustificò il “patto del Nazareno” davanti ai compagni di partito) è diventata un’iniziativa “di parte” e di una parte precisa: il governo e il suo dominus, il Presidente Renzi. Ecco perché ci troviamo di fronte al referendum costituzionale: per evitarlo sarebbe stata necessaria l’approvazione finale della riforma da parte dei 2/3 dei deputati e dei senatori, obiettivo assolutamente fuori portata (benché i fautori del sì si affannino a spiegare che il referendum è stato una “scelta” del governo…)
Credo che il 4 dicembre, comunque vadano le cose, avremo tutti un po’ perso.
Il mondo politico è diviso ormai da mesi in due fazioni che si contrappongono fieramente, mentre il Paese sembra tutto sommato abbastanza indifferente (più del 40% degli italiani dichiara che non andrà a votare e gli indecisi sono ancora moltissimi). Se vincerà il sì, l’Italia dovrà faticosamente adattarsi alla sua nuova struttura istituzionale, con tutto il caos che questo – almeno temporaneamente – comporterà; se vince il no, il clima politico diventerà ancora più avvelenato e l’attenzione sarà ancor più distratta dai veri problemi dei quali dovremmo tutti, urgentemente, occuparci.
Speriamo solo che, dopo un po’ di confusione, gli animi possano calmarsi e si possa ricominciare ad affrontare le vere sfide, che per il momento rimangono in secondo piano: altrimenti la riforma costituzionale avrà fatto più male che bene
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