Governo
Che fatica stare sul fronte del No
Poi arriva il giorno in cui capisci di essere fregato. Seguire la campagna elettorale di quelli del No al referendum costituzionale del 4 dicembre è una sofferenza. Intendiamoci, non che quelli del Sì siano uno splendore: i manifesti 6×3 che grondano retorica sul taglio dei costi della politica, tanto per dirne una fra tante, sono ributtanti, ma insomma il renzismo non è mai stato alta politica, tutt’altro.
Il problema di quelli del No è che sembrano pervicacemente intenzionati a ripercorrere strade già attraversate – con risultati inquietanti – durante gli anni di Berlusconi. I temi, i modi e i toni sono gli stessi che in passato hanno portato a certe note epiche sconfitte della sinistra, o alle vittorie mutilate che, col senno di poi, forse sarebbe stato meglio evitare proprio.
Abbiamo chi tira fuori vecchi giochi di parole (la «schiforma», la «deforma», etc.), chi grida al complotto, chi, niente meno, alla «democrazia in pericolo», Renzi come un novello ducetto, un caudillo, un – ecco, diciamolo – Berlusconi senza le televisioni, o forse sì ma va’ a saperlo. Ecco, il cav. è stato combattuto per quasi due decenni con argomenti simili, e se adesso si sta ritirando (forse) è solo per sopraggiunti limiti di età, non perché abbia trovato qualcuno che l’abbia realmente e definitivamente sconfitto.
Non solo, anche le mosse comunicative di quelli del No sono un disastro, a partire dai match televisivi tutti vinti per ko da Matteo Renzi, chiunque sia stato l’avversario. Se c’era una cosa, una sola cosa, di cui non potevano essere tacciati quelli del No era il conservatorismo. In questo senso, mandare a un dibattito televisivo gente come il nobile Zagrebelsky è stato un suicidio, a partire dal fatto che si è presentato con i capelli tinti, l’abito marrone e un suo libro in mano – Renzi l’ha ucciso dicendogli che «professore, lei sta leggendo una cosa scritta da lei non la Costituzione» -, passando poi per dei tempi di argomentazione che non sono quelli di chi non conosce come funziona la tivvù, ma di chi non sembra proprio più abituato a parlare a gente viva. Scusate l’insistenza, ma era davvero necessario scomodare uno che è sì un eminente studioso ma è anche un ex giudice della Corte Costituzionale (organo che per Marco Pannella era la «suprema cupola della mafiosità partitocratica»), con la pensione d’oro e un bagaglio di frasi tipo «Se vince il No smetto di insegnare», detto alla bella età di 73 anni? Follia. Solo così si può spiegare una mossa del genere senza scadere nel complotto e ipotizzare che Zagrebelsky sia stato mandato da Mentana solo per far guadagnare voti al Sì. E lasciamo perdere l’obiezione che certi programmi non li guarda nessuno, perché in una partita che si gioca sul filo del rasoio anche poche migliaia di persone sono fondamentali. A volergli bene, Zagrebelsky e simili parlano soltanto a chi già è convinto di votare No, come quel film con Silvio Orlando che faceva il professore e sosteneva che «la scuola non serve a niente perché si rivolge solo a chi non avrebbe bisogno di andarci».
Il 4 dicembre è stato presentato da Renzi come la data in cui tutto cambierà o in cui torneremo indietro di trent’anni, e quelli del No, molto astuti, sono della stessa idea: il referendum come la battaglia di Gettysburg, lo scontro finale tra il bene il male, vincere o morire. L’errore politico è evidente: se si perde, si muore. Ovvero, se l’insieme delle forze oggettivamente etorogenee che sostiene il No (ci arriviamo) dovesse uscire sconfitto, per propria ammissione, sarebbe letteralmente raso al suolo, condannato all’irrilevanza perenne, al mutismo coatto. Insomma, ci si gioca tutto in un tiro di dadi, e se va male si esce dal tavolo per lasciare spazio a chi ha vinto contro tutti. Il panrenzismo di fatto, un capolavoro.
Renzi, che invece si prende il lusso di dire e promettere tante cose che in realtà non pensa nemmeno, se dovesse perdere andrà sicuramente incontro a un periodo non esaltante della propria carriera politica, ma verosimilmente riuscirebbe a rimanere in sella al suo partito, o almeno ha la prospettiva di poter combattere un’altra battaglia per continuare a farlo, con buone possibilità di riuscirci tra l’altro visto che il vecchio non è riproponibile (amici del Pd, davvero vorreste ridare il partito a Bersani o a D’Alema? Siamo seri) e il nuovo stenta a nascere (Enrico Rossi, lo sappiamo, non ce la farà mai, Civati è irrimediabilmente perso nelle nebbie, gli altri papabili sono tutti in altre faccende affaccendati e non scenderanno mai in campo in un momento del genere, qui il pensiero va dritto a gente come Pisapia o Zingaretti).
Dicevamo delle forze diverse che compongono il fronte del No. Parliamo dell’uomo o della donna di sinistra: come ci si sente a lottare dallo stesso lato della barricata di Matteo Salvini, Renato Brunetta, Silvio Berlusconi, Casapound, il Popolo della Famiglia e ora addirittura Mario Monti? Lasciamo perdere il Movimento Cinque Stelle che meriterebbe un capitolo a parte, ma ci sono anche loro, che pure non sono alleati così rassicuranti. Insomma, che effetto fa? E non diciamo che con quegli altri ci sono Alfano e Verdini, perché un tempo non troppo lontano, compagne e compagni, non faceva poi così schifo partecipare a un governo con Mastella.
Il problema l’ha sintetizzato in una frase il giornalista Giuliano Santoro, rispondendo su Facebook a un appunto un po’ pessimista dell’ex deputato abruzzese di Rifondazione Comunista Maurizio Acerbo: «Se fossimo ‘noi’ ad essere determinanti e a dire cose che circolano, certo che festeggerei». Come la Brexit è stato uno schiaffo all’Ue arrivato da destra, così il No al referendum è ormai monopolio di populisti e fascistoni. Il merito della riforma non interessa a nessuno, s’è capito (e d’altra parte c’è effettivamente poco da dire in quel senso), ma tutte le risposte, sia pure vaghe, non arrivano dalla sinistra. La radio è rotta, non c’è segnale. Nella migliore delle ipotesi l’argomentazione principe è che «bisogna mandare a casa Renzi», e basterebbe anche così se poi non arrivasse il corollario a base di «sovranità da riconquistare», «stop ai clandestini» e «Onestà! Onestà! Onestà!». Perché questo è quanto si legge e si ascolta in giro, non il pur lodevole lancio del «No sociale» da parte di qualche compagno ormai isolatissimo dal dibattito.
La verità è che si aspetta il 4 dicembre pensando che se vince il No si aprirà uno «spazio politico», espressione idiomatica che corrisponde al gaberiano «la rivoluzione oggi no, domani forse, ma dopodomani sicuramente». Vedrete che qualcuno dopo lancerà un appello, qualche intellettuale lo sottoscriverà, si inserirà la famigerata società civile, seguiranno incontri e assemblee in cui non si dirà nulla, qualcuno continuerà ad avercela con Vendola, qualcun altro con Ferrero, forse si farà una lista tutti insieme e poi alle elezioni se si arriva al 4 percento è un miracolo. Perché questa è la prospettiva, atroché.
È l’ultima trasformazione del rapporto perverso che la sinistra ha storicamente con il potere. Adorato o combattuto, odiato o bramato, ma mai davvero compreso. Perché il potere non è esibizione, non è imposizione, è forma, è auctoritas, è egemonia. È essere il centro del discorso. Non è una vendetta, non è un’elezione, non è un congresso, non è un referendum. Alla fine non è nemmeno vincere o perdere.
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