Governo
Cercasi spin doctor per Poletti. Cervelli in fuga: epic fail e inutile polemica
L’ENNESIMO SCIVOLONE
Certe gaffe sono indifendibili. A prescindere dal senso reale e restando anche solo sul piano del peso mediatico, della reazione corale. Ultimamente Giuliano Poletti sembra stanco. Più confuso del solito. Forse nervoso. O forse è proprio negato di suo, il Ministro, in fatto di comunicazione, di self control, di diplomazia, di rapporti con i media. La vecchia storia del contare fino a 10 prima di aprire bocca sarebbe già un passo in avanti. Dotarsi di un bravo consulente o addetto stampa sarebbe una mossa astuta.
Dunque, Poletti – che ha poi spiegato e chiesto scusa – è al centro di una tempesta, a causa di alcune audaci dichiarazioni rilasciate di recente a Fano, durante un incontro coi giornalisti, giusto all’indomani dello scivolone su Jobs Act, referendum ed elezioni. Il tema erano i giovani, la crisi occupazionale e i “cervelli in fuga”.
Dice il Ministro: “Intanto bisogna correggere un’opinione secondo cui quelli che se ne vanno sono sempre i migliori. Se ne vanno 100mila, ce ne sono 60 milioni qui: sarebbe a dire che i 100mila bravi e intelligenti se ne sono andati e quelli che sono rimasti qui sono tutti dei ‘pistola’. Permettetemi di contestare questa tesi“.
Dunque, quei giovani che hanno scelto di restare in questo Paese disgraziato – o che non hanno avuto occasione di mollare gli ormeggi – meritano considerazione. E non dovrebbero finire nel novero dei meno brillanti, meno preparati, meno talentuosi. Coloro che fuggono sono per forza i migliori?
TRA EQUIVOCI E BANALITÀ
Certo i cliché non portano mai niente di buono. Ma nemmeno le polemiche forzate, gestite male e per di più montate da esponenti di governo. Perché ecco, subito dopo, la frase incendiaria: “Conosco gente che è andata via e che è bene che stia dove è andata, perché sicuramente questo Paese non soffrirà a non averli più fra i piedi“.
E il discorso, magicamente, si riduce a quest’unico concetto, sintetizzato ad hoc fra i commenti della Rete. Del tipo: “di voi, incapaci che siete partiti, facciamo volentieri a meno”. Un messaggio ben più spregevole del “choosy” di forneriana memoria; ancor più odioso di quello messo nero su bianco un anno fa, sempre da Poletti, sempre a proposito di nuove generazioni: “Prendere 110 e lode a 28 anni non serve a un fico, è meglio prendere 97 a 21”. Peccato che il senso doveva essere un altro: da nessuna parte si legge un insulto ai 100mila che se ne vanno.
È infatti ovvio che il Ministro stesse solo rafforzando il pensiero precedente: non tutte le menti eccelse partono, non tutti quelli che restano sono inadeguati. Anzi. Questi ultimi sono spesso valide risorse. Ok. Ma che polemica è? Debole, gratuita: la sua, e di conseguenza quella esplosa intorno al caso. Un valzer di luoghi comuni, equivoci e banalità.
Non poteva, il goffo Poletti, limitarsi a spendere buone parole per i tanti che scelgono l’Italia e impegnarsi per far tornare chi è scappato in cerca di un futuro? Nessuno si ricorderà mai di una frase come questa: “È bene che i nostri giovani abbiano l’opportunità di andare in giro per l’Europa e per il mondo. È un’opportunità di fare la loro esperienza, ma debbono anche avere la possibilità di tornare nel nostro Paese. Dobbiamo offrire loro l’opportunità di esprimere qui capacità, competenza, saper fare“. A dominare è la frase ostile, aggressiva, quella che alza il polverone. E nessuno si soffermerà su quel “conosco gente”: alcuni, mica tutti. Ma sono sottigliezze che la macchina mediatica cancella. Così ‘alcuni’ diventano ‘tutti’.
E SPUNTA PURE IL RIFERIMENTO ALLE VITTIME DEL TERRORISMO
E la colpa non è dei giornali, di chi si ferma ai titoli, di chi scorre velocemente una pagina, di chi si fa prendere dalla rabbia o di chi si sente comunque offeso. La colpa è sempre di chi non sa come si parla alla gente e ai giornali.
Così, al netto degli sfoghi contro la casta, dei piagnistei e delle esagerazioni, è chiaro che da un Ministro ci si aspettano analisi assai meno superficiali e ben altro spessore: chi resta sia valorizzato, ma come?; chi parte controvoglia, e magari avvia delle attività all’estero, sia incentivato a tornare: con quali misure?; perché quelli bravi che restano spesso non sfondano e i meno bravi che espatriano trovano comunque un modo per crescere, per formarsi, per migliorare?
Evidenziare, con quei modi aspri e scortesi, che tra i giovani in fuga ci sono anche mediocri o sbandati (cosa del tutto ovvia, ma le affermazioni generiche si prestano a fraintendimenti: altro errore) era superfluo, fuori contesto. Anzi, dannoso. A chi ha giovato? Un autogol offerto su un piatto d’argento ai titolisti, ai polemisti, agli haters, al malcontento (sacrosanto) dei cittadini e persino a chi – politici inclusi – sta usando la tragedia dei giovani italiani all’estero vittime del terrorismo (da Valeria Solesin a Giulio Regeni, fino a Fabrizia Di Lorenzo, dispersa in queste ore dopo la strage di Berlino) per scagliarsi ancora contro di lui. Come se c’entrasse qualcosa. Come se servisse altra benzina sul fuoco.
LE PAROLE SONO IMPORTANTI
Ci vuole uno spin doctor per spiegare tutto questo? Evidentemente sì. Così come sarebbe servito a Renzi e alla Boschi durante il fatale referendum (… Jim Messina chi?), o alla Lorenzin per il suo improbabile Fertility Day.
Perché il rischio, alla fine, è che a beneficiare di queste gaffe siano sempre gli stessi: i populisti che hanno tutto il vantaggio di stare all’opposizione, che per vocazione scelgono la via ruffiana, che campano di gentismo e danno sempre ragione al popolo, che mostrano solo il volto candido, che sfruttano le bufale, che fomentano la rabbia e traducono la complessità delle cose nella facilità di slogan a portata di click.
Come contrastare il trend? Essendo seri, innanzitutto. Mettendo da parte arroganza, polemiche sterili, vacuità, narrazioni non empatiche. Accorciando le distanze. Disdegnando la demagogia ma al contempo scendendo dal trono. E avendo cura delle parole, che non sono solo importanti: nell’era dell’assoluta cacofonia digitale e della sbornia visiva, laddove tutto è rumore di fondo e tutto è inganno, confusione, distorsione, le parole diventano vitali. A patto che siano autentiche, responsabili, sensibili, umane, dense di contenuto. Non scaltre, ma brillanti. L’intelligenza del linguaggio e la sua luce: in un tempo in cui la partita si gioca tanto sulle idee, quanto sulla maniera di comunicarle, è anche da qui che la politica dovrebbe ripensarsi e ripartire.
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