Governo
Cari compagni dell’ANPI, sicuri che questo sia ancora antifascismo?
Tra le tante case in cui ho abitato qui a Venezia c’è stato anche un umido bugigattolo nei pressi di via Garibaldi, cuore di Castello, sestiere operaio dai tempi in cui l’Arsenale era fabbrica nella città viva – e non vetrina di idee come durante le biennali. A pochi passi dalla mia porta, il 3 agosto 1944, sette giovani antifascisti vennero fucilati dai nazisti. A loro è dedicata riva Sette Martiri, già riva dell’Impero – alla quale sino a pochi anni fa attraccavano le navi da crociera (ma questa è un’altra storia).
Girato l’angolo, sbucando in via Garibaldi, passavo ogni giorno davanti alla sede della piccola sezione ANPI, tenuta aperta da alcuni anziani – non tutti ex resistenti, per evidenti ragioni anagrafiche. Il tempo scorre inesorabile, al punto che, sessant’anni dopo la guerra di Liberazione, riva Sette Martiri era diventata location della bizzarra e un po’ inquietante adunata leghista, il “Raduno dei popoli padani”. Il Palco addobbato di verde veniva montato lì davanti alle sette fiammelle accese sotto alla lapide dei partigiani.
A placare l’inquietudine e l’indignazione non bastava il ricordo di un Bossi antifascista (almeno a parole, presto rimangiate: «la Lega con i fascisti, mai!»), visto che il leghismo ha sempre rappresentato quanto di più lontano ci possa essere dai valori della Resistenza, anche senza contare i neofascisti mai pentiti confluiti nell’autonomismo negli anni ’80, Borghezio in testa, e la nuova linea “eurasiatista” del miracolato Salvini.
Vivere accanto a un luogo della memoria nell’anno del 150° anniversario dell’Unità, vedere quel luogo in qualche modo profanato dalle orde fascioleghiste. Insomma, tutta questa serie di coincidenze spaziali e simboliche, nel 2011 hanno fatto sì che mi iscrivessi all’ANPI. Non ho fatto la tessera perché bisognoso di una certificazione del mio antifascismo, ma perché convinto del valore della testimonianza – si dice così, no?
I partigiani invecchiano e passano a miglior vita, i loro figli e nipoti hanno il dovere di portare avanti i valori repubblicani, democratici e antifascisti. Questo credevo, sebbene non credessi più da tempo alll’antifascismo più o meno militante come sinonimo di democrazia – anche senza scomodare Flaiano. Non importava, perché «il valore della testimonianza» è troppo grande per lasciar posto ai dubbi.
Mi sono sbagliato, come tante altre volte in vita mia, e pazienza. L’aver aperto le iscrizioni a qualunque cittadino maggiorenne dichiarante il proprio antifascismo non ha contribuito a diffondere la memoria della Resistenza, ma ha decretato semplicemente la sostituzione della cultura antifascista dell’ANPI con quel pastone ideologico postmoderno di cui le generazioni attuali si ingozzano quotidianamente attraverso la Rete.
Se la sinistra di sistema si ricorda di essere antifascista soltanto il 25 aprile, quella all’opposizione se ne ricorda persino quando va al cesso, chiedendosi se pisciare in piedi possa o no rappresentare un’offesa alla Costituzione. O se gli Ebrei abbiano il diritto di sfilare alla Festa della Liberazione. All’interno dell’ANPI, la vecchia cultura istituzionale del PCI, che dovrebbe essere rappresentata dal Presidente Smuraglia – ahinoi, adeguatosi al nuovo andazzo – è pressoché estinta.
Al suo posto, un massimalismo parolaio tutto schiacciato sul presente, che usa l’associazione come strumento e la sua eredità storica come fonte di legittimazione. Da una parte parte i c.d antagonisti, che pure hanno avuto qualche screzio con l’ANPI nazionale a proposito dei noTAV come «nuovi partigiani», e dall’altra naturalmente il meraviglioso universo grillino, nel quale, grazie al decervellamento generale (e alla prevalenza del cretino anche a Sinistra), si pretende di tener assieme una piattaforma da Destra Nazionale e figure simboliche come Pertini e Berlinguer…
In alcune sezioni in giro per l’italia, questa metamorfosi dell’ANPI si è vista meglio che in altre. Ad esempio qui a Venezia, città di spiriti militanti e di fiere rivendicazioni identitarie, in cui le minoranze rumorose – grazie alle doti spettacolari ereditate dalla grande tradizione teatrale cittadina – hanno sempre contato un po’ più del loro peso elettorale effettivo. Giusto un anno fa, subito dopo la prima dura presa di posizione del direttivo nazionale rispetto all’Italicum, la nuova anima dell’ANPI è uscita definitivamente allo scoperto. Un comunicato apparso sul web e inviato a tutti gli iscritti chiudeva così:
«A tutti i parlamentari che hanno detto sì a questa legge, l’ANPI 7 Martiri di Venezia ricorda che hanno ignorato i valori per cui hanno lottato e sofferto quei Partigiani che solo dieci giorni prima, nel settantesimo della Liberazione, in quella stessa Aula, hanno testimoniato la loro fede nella Costituzione e nella Democrazia. Per queste ragioni, l’ANPI Venezia ritiene che la scelta fatta da quei parlamentari rende incompatibile con i principi statutari, la loro permanenza nell’Associazione».
Una piccola svista redazionale chiariva l’origine del comunicato. Il file di Open Office allegato all’email a noi iscritti conservava ancora una nota di revisione recante il nome di Gianluigi Placella, “cittadino prestato alla politica”, già consigliere comunale del M5S. A quel punto avevo già preso la mia decisione. Ho scritto quindi una letterina al direttivo locale chiedendo di essere eliminato dall’anagrafe degli iscritti, motivando la mia uscita con l’insopportabile “deriva tribunizia” dell’associazione.
E veniamo a queste ultimi deprimenti settimane. Dopo l’Italicum, la riforma costituzionale e il dibattito – finora assai superficiale – sul “combinato disposto” tra le due, le nuove, sempre più dure prese di posizione dell’Associazione e il botta e risposta tra questa e il Governo. Colpisce e fa male la reazione di Pier Luigi Bersani, che credevo uomo di buon senso. Non so decidermi: è peggio pensare alla malafede o ad un’improvvisa epidemia di analfabetismo funzionale?
Maria Elena Boschi era criticabile per il colpo basso su CasaPound (e qui l’abbiamo criticata senza sconti), ma in questo caso si è limitata a rilevare un fatto incontrovertibile: a votare Sì alla riforma saranno anche alcuni “veri partigiani”, cioè alcuni veri resistenti del ’43-’45. Pochi o molti – ma il numero non dovrebbe contare in una cultura che fu assolutamente minoritaria durante il fascismo – essi hanno combattuto per liberare l’Italia, al contrario di qualche cazzone cinquantenne grillino o rifondarolo autoproclamatosi difensore della Costituzione.
E persino tra gli antifascisti che la guerra di liberazione non l’hanno fatta c’è qualche dissenso. Il segretario del mio circolo PD, a titolo di esempio, presenzierà ai gazebo dei comitati per il Sì con il suo fazzoletto dell’ANPI al collo. (Per la cronaca, non si tratta di un renziano).
A questo punto la riforma in sé – davvero un ben misero spauracchio – non è più la questione principale. E forse la questione non è neppure più politica in senso stretto, ma morale. Perché è lecito domandarsi che moralità possa avere chi usi il sangue della Resistenza nella sua piccola, miserabile battaglia contro una maggioranza di governo non gradita, sebbene pienamente legittimata proprio dalla nostra Costituzione, «democratica e antifascista».
Siamo solo all’inizio, perché da qui ad ottobre raggiungeremo, ne sono certo, bassezze davvero inusitate.
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