Governo

Campagna elettorale: per dirla con Foucault i temi ci sarebbero. Ma poi?

15 Febbraio 2018

È opinione diffusa tra gli analisti politici, e tra molti elettori, che l’attuale campagna elettorale sia una delle peggiori degli ultimi anni. Manca la visione del futuro e le idee per portare il Paese definitivamente fuori dalla crisi economica che ci colpisce dal 2008. Così come è da rimarcare l’assenza dei temi portanti di due recenti vittore elettorali inaspettate e sorprendenti: la middle class di Trump e l’Europa di Macron. Da noi la media borghesia sembra non essere un target elettorale appetibile (è già defunta?), così come le fabbriche in crisi non fanno parte dell’agenda di nessuno dei candidati (non ci sono più fabbriche in Italia?). Infine, anche l’Europa è un tema fantasma per la campagna elettorale rimanendo il vincolo esterno di ogni politica economica senza che nessuno voglia dirsi europeista (e proporsi come terzo partner di Francia e Germania) o dirsi radicalmente antieuropeista (nemmeno più la Lega e i M5s).

Certo, lo sappiamo, le campagne elettorali si giocano sempre di più sui leader, sul loro carisma e sulla loro empatia. Le elezioni moderne sono una sorta di sondaggio di gradimento personale: Berlusconi, Salvini, Renzi, Grasso, Di Maio. Si vota per loro. Con il paradosso, tutto nostrano, che nessuno di loro sarà verosimilmente il prossimo Presidente del Consiglio. Almeno francesi e americani votano per leader che poi li governano. Forse noi dovremmo imparare dai tedeschi, più simili per sistema elettorale, che alla fine votano per schieramenti politici definiti con dei leader che basano il loro consenso non solo sulla propria immagine ma sul fare politica nel e con il loro partito – forse quello che avrebbe potuto fare, unico tra tutti, Renzi con il PD unito. Quindi, in Italia, non si sa nemmeno bene per cosa si debba in realtà votare. Non certo per i leader che governeranno. Quindi? Per i temi? Parrebbe di no.

Ma voglio andare controcorrente e dire che i due temi decisivi per una democrazia liberale ci sono tutti in questa campagna elettorale: il benessere dei cittadini e la loro sicurezza. Magari raccontati e proposti male o superficialmente, ma eccome se ci sono.  Quindi, bravi!

Proviamo a spiegarlo. Per dirla con Foucault, la democrazia moderna nasce quando il diritto pubblico smette di interrogarsi su come legittimare la sovranità di re e despoti e inizia ad interessarsi dei limiti giuridici dell’esercizio della potenza pubblica e dei suoi apparati. La pratica di governo liberaldemocratica (come lo sono tutte quelle occidentali, seppure con sfumature differenti) nasce quando vengono definiti i limiti di competenza del governo in base a criteri di utilità del suo intervento. Un governo è legittimato quando è utile ai suoi cittadini.

Sono, dunque, democrazie che devono la legittimità nella loro capacità di trovare un equilibrio tra utilità individuale e utilità generale attraverso il dispiegarsi di un’economia prevalentemente di mercato (sebbene non necessariamente liberista). La categoria fondante diventa quella dell’interesse, la possibilità dello scambio senza frode e l’utilità dell’autorità pubblica nel garantire questa possibilità. In sintesi: io cittadino rinuncio a parte della mia liberà di fare  (e di essere totalmente libero) in nome di un’autorità pubblica che mi garantirà la possibilità della mia libertà istituendo una pratica di governo capace di coniugare interessi privati con quelli pubblici, profitto con utilità sociale, diritti con indipendenza degli individui. È questo il patto sancito tra elettore e suoi rappresentanti politici: produrre libertà sufficienti per garantire il benessere in cambio di legittimità. Serve la libertà di mercato e quindi si deve salvaguardare la concorrenza, ad esempio attraverso leggi anti monopolistiche, governo pensaci tu. Serve libertà del mercato del lavoro ma servono anche i lavoratori (e i loro diritti), governo pensaci tu. Serve la crescita dell’economia ma servono anche i consumatori e così via.

Garantire questo patto ha un costo e la metrica di questo costo è la produzione di sicurezza. Senza sicurezza non ci può essere libertà, mercato, lavoro e benessere. La pratica di governo liberaldemocratica, ci ammonisce ancora Foucault, è diventata esperta nel creare questo bisogno di sicurezza ponendo i cittadini continuamente in condizione di pericolo o indotti a percepire la loro vita, il loro presente e futuro, gravidi di pericoli.  Una sorta di cultura politica del pericolo: pericoli continuamente suscitati, riattualizzati, drammatizzati, amplificati da una comunicazione rannicchiata sul presente e senza prospettiva storica. Basterebbe fare un’analisi sulla ricorrenza della parola ‘crisi’ in tutte le nostre conversazioni per rendersene conto. C’è una crisi dietro ad ogni svolta delle nostre vite. Eppure viviamo in uno dei periodi storici più floridi e privi di pericoli. Ma chi se ne accorge più?

Se le parole del filosofo francese, che risalgono al corso del 1978-79 al College de France, sono corrette allora i nostri politici colgono nel segno: parlano di interessi individuali – per lo più attraverso ipotetici interventi normativi di tipo fiscale – e parlano di sicurezza – seppur semplificata nella questione sull’immigrazione.  E, ovviamente, amplificano i temi della crisi, i bisogni di sicurezza. Alla fine votiamo per la forza politica che garantisce risposte più efficaci ad aspettative di benessere e a bisogni di sicurezza  (che sono le forze politiche stesse a creare e a mettere al centro dell’agenda del Paese, ma questo è un altro tema…). Azzardo una semplificazione: abbiamo da una parte una serie di forze politiche che provano a ragionare sul tema del benessere e dall’altra parte movimenti che puntano sul tema sicurezza. Entrambi puntando sulla retorica delle emozioni. Entrambi, però, coerenti con quella che è la natura del patto tra governanti e governati: creare benessere in una cornice di mercato liberale grazie ad un adeguato livello di sicurezza garantito dalla pratica di governo. A noi la scelta. A noi scegliere quale ambito privilegiare, quale agenda votare.

Ovviamente non sorprende affatto come in questa campagna elettorale manchino completamente i temi dei diritti sociali – gli interessi, come direbbe la nostra guida in questa riflessione Michel Foucault, hanno soppiantato i diritti, in quanto sono di fatto i primi a legittimare le pratiche di governo moderne – e quelli ideologici ormai sorpassati da una storia che ne ha decretato la morte. Non si fa menzione nemmeno della rivoluzione digitale, a parte qualche accenno a nuove tasse anche per i robot dove l’enfasi è, appunto, sulla parola ‘tasse’. Argomenti di nicchia evidentemente.

I temi ci sono. Sono quelli giusti. Sono quelli che i cittadini vogliono sentirsi declinare, e sono quelli che garantiscono legittimità ai governanti. Sono quelli, insomma, per cui un elettore razionale dovrebbe andare a votare, al netto del valore simbolico e di appartenenza del voto (che ancora conta moltissimo). Forse non ci piacerà ma è così. Certo, poi nessuno ci crede più. Una volta che il governo conquista la sua legittimazione a mettere in pratica la sua agenda, non sa più che farsene. Se ne sta lì paralizzato da una distanza siderale tra il dire e il fare. Ma il problema non sono i temi. Il problema è che, diciamolo, non si sa nemmeno più bene come tradurre le parole in fatti. Un po’ come accade in tutte le nostre aziende, in tutti i nostri posti di lavoro. Specializzati nella chiacchiera e nel mugugno, pigri nel fare. Ecco non vorremmo che mugugnare sui temi della campagna elettorale fosse uno straordinario alibi per rendere ancora tutti ancora più pigri nel fare. Quindi, smettiamola. Diciamo loro: bravi! Magari si sentiranno tutti un po’ più invogliati a fare.

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