Governo
Brexit, i veri sconfitti sono gli indipendentisti dello Ukip
Le elezioni nel Regno Unito il prossimo 8 giugno saranno un momento decisivo della fase politica iniziata un anno fa con il referendum sulla Brexit, sicuramente una delle più complesse che il Paese abbia mai affrontato. Il risultato di quel referendum ha costretto alle dimissioni David Cameron e sancito la nascita della leadership di Theresa May, chiamata a sostituirlo come primo ministro. Proprio la May, infatti, ha dato l’avvio nel marzo 2017 al processo di uscita dall’Unione Europea, invocando l’art. 50 del Tratto di Lisbona, e ha convocato le elezioni anticipate. Ma, a guardar bene lo scenario britannico, questa fase ha già visto la scomparsa del soggetto politico che l’ha determinata: il Partito per l’Indipendenza del Regno Unito (Ukip) è infatti ormai praticamente inesistente, tanto sul piano politico quanto su quello mediatico.
Certo una tesi del genere può apparire paradossale, considerato che il principale (pressoché unico) obiettivo degli indipendentisti sta per divenire realtà. Ma bisogna osservare con lucidità la genesi della Brexit: quando, alle elezioni europee del 2014, lo Ukip risultò il primo partito superando incredibilmente conservatori e laburisti, l’ipotesi dell’uscita del Regno Unito dall’Europa acquistò una concretezza fino ad allora impensabile, rinforzando anche l’ala euroscettica del partito conservatore e costringendo David Cameron, nel 2015, a promettere agli elettori di indire un referendum sul tema. In sostanza, lo Ukip aveva ormai prodotto egemonia culturale euroscettica nella politica e nello società britannica. Il resto è storia.
Ma ora che il risultato è raggiunto, le righe si rompono. Nigel Farage, storico leader del partito, si è dimesso nel luglio 2016; da marzo lo Ukip non ha più parlamentari, avendo Douglas Carswell lasciato il partito per rappresentare il suo collegio nell’Essex da indipendente. Lo stesso Carswell ha recentemente accusato Farage di aver fatto spostare molti elettori versi i conservatori e di aver reso il partito irrilevante. I sondaggi relegano lo UKIP al 5% (Telegraph, 17 maggio), una percentuale decisamente irrisoria per il partito che ha determinato una scelta così cruciale, tanto più perché con i collegi uninominali vi è il rischio di non eleggere nessun parlamentare.
La Brexit sarà quindi, con ogni probabilità, gestita da Theresa May, figura ormai centrale, che con le elezioni anticipate punta a rinforzare la sua leadership nel partito conservatore e a ottenere la legittimità politica necessaria di fronte al paese per condurre i negoziati con l’Unione Europea. Sarà interessante vedere il risultato dei laburisti, che oggi appare incerto anche a causa della leadership di Jeremy Corbyn, ritenuta troppo di sinistra per alcuni. Completano il quadro gli indipendentisti scozzesi, che proprio sulla base del loro europeismo vorrebbero indire un nuovo referendum d’indipendenza, e i liberaldemocratici, che tentano di accreditarsi come unico polo di rappresentanza dei sostenitori del remain, anche a prezzo di sovvertire l’esito del referendum.
Lo UKIP, insomma, realizza l’obiettivo per cui era nato, ma passa la palla ai conservatori, rinunciando a gestire la fase politica inaugurata dal suo stesso successo. Alla May spetterà il compito di traghettare l’UK nel futuro post-UE e di sciogliere il nodo tra hard e soft Brexit.
Ma più che il frutto di una scelta, ciò va letto come l’inevitabile conseguenza della natura dello UKIP: un single-issue party creato da dilettanti della politica che hanno vinto il referendum insistendo su temi di facile presa sull’elettorato (vedasi la bufala del servizio sanitario nazionale depauperato dalla UE) e sulla critica ai partiti tradizionali, ma che non hanno mai avuto realmente un piano di gestione in caso di vittoria. Il risultato è che la Brexit sarà gestita da chi non l’ha scelta, e gli unici ad averla supportata fino in fondo delegheranno ad altri le modalità con cui avverrà.
Dal caso Ukip sembra si possa ricavare un insegnamento più generale: le classi dirigenti improvvisate, prive di meccanismi di selezione e di strutture consolidate, rischiano di innescare processi che poi non sanno gestire. Assecondare la pancia dell’elettorato ha quindi l’unico effetto di prendere decisioni forti senza avere una reale idea di cosa succederà dopo, e soprattutto senza che coloro che hanno spinto per prenderle siano disposti ad assumersene le responsabilità, prima di tutto perché non comprendono la complessità delle dinamiche in cui si muovono. Ciò è da tenere a mente, in un periodo in cui fioccano ovunque soluzioni drastiche presentate come semplici e geniali.
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