Governo

Autonomia: una risposta da sinistra

16 Luglio 2019

Il tema dell’autonomia differenziata è l’ennesima dimostrazione di come la sinistra manchi di una idea di Paese da contrapporre a quella, purtroppo egemonica, della destra.

Quale modello di società vogliamo proporre? Come vorremmo il mondo in cui dovranno vivere le future generazioni? Quali risposte diamo ai bisogni, veri, attuali, drammatici, degli italiani, e non solo?

Senza risposte a queste domande saremo sempre perdenti nei confronti di una destra aggressiva che, a parole, promette di rispondere ai bisogni delle persone: sicurezza, stabilità, certezza nel futuro.

Il cuore di questo intervento è che, per citare le parole di Massimo D’Alema, “La sinistra si è trovata disorientata di fronte a una globalizzazione che ha acuito le disuguaglianze” e, aggiungo io, adesso deve trovare delle risposte “di sinistra”, coerenti con i propri valori, che sono gli stessi scritti nella Costituzione e in circa 200 anni di storia di lotte e conquiste sociali e civili.

L’autonomia, in questo senso, può essere importante.

Il modello di società in cui sono cresciuto, risultato di condizioni internazionali uniche nella storia, è andato in crisi già negli anni ‘90.

E’ da allora che si sente parlare di attacchi ai diritti dei lavoratori, allo stato sociale, a tutte le conquiste degli anni ‘60 e ‘70.

Fino ai primi anni del XXI secolo il sistema economico mondiale ha comunque retto, spostando l’asse dell’economia verso una progressiva finanziarizzazione, a scapito dell’economia reale.

Nel frattempo venivano sempre più erosi i margini di manovra degli stati nazionali, ai quali sfuggiva progressivamente il controllo dell’economia, e venivano demolite “le costituzioni dei paesi del mediterraneo”, nel nome di una globalizzazione ritenuta, a torto, benevola.

Poi nel 2008 la crisi è esplosa in tutta la sua evidenza, ed ha messo in discussione pesantemente tutto il nostro sistema occidentale. Ha massacrato le classi più deboli, e ha pesantemente aggredito anche la classe media.

E’ una crisi, innanzitutto, di modello economico, di redistribuzione di ricchezze fra Nord e Sud del mondo, e anche di redistribuzione all’interno dei paesi ricchi.

Di fronte a questa crisi ci siamo trovati scoperti, come sinistra, e incapaci di cogliere i cambiamenti che erano nel frattempo intervenuti nella società.

Ed è proprio qui che il tema dell’autonomia regionale entra nel discorso, sia perché ci indica una possibile via di uscita, sia perché, riflettendo sulle reazioni che ha sin qui avuto la sinistra italiana, ci rendiamo conto della nostra inadeguatezza di prospettive.

Va subito detto che il progetto di Autonomia Regionale differenziata che è sulla scena politica da ormai oltre un anno, quello che la Lega vorrebbe attuare in gran segreto, all’oscuro o quasi degli organi rappresentativi, stravolgendo ogni corretta prassi parlamentare, va rifiutato decisamente, e interamente, per le ragioni che meglio di me hanno espresso in questi mesi Massimo Villone, Gianfranco Viesti, Andrea Del Monaco, Marco Esposito e tanti altri, e, come è emerso anche dall’assemblea nazionale di ArticoloUno del 13 Luglio scorso, anche la totalità degli intervenuti nel dibattito.

Il problema è però quello di non limitarsi a contrastare il progetto leghista per lasciare tutto com’è, ma occorre dare una risposta da sinistra su questo tema, ricordandoci come il tema dell’autonomia, anzi, delle autonomie, è fortemente legato alla migliore tradizione della sinistra, è da sempre stato un tema di libertà e di emancipazione dei popoli.

Cominciamo col dire che chi sostiene la proposta di autonomia oggi in discussione non è solo il “partito della Padania” di qualche anno addietro. E’ presente nel Nord del Paese, trasversale a tutti i partiti, compreso il PD, una corrente di opinione che ritiene politicamente accettabile immaginare una macroregione del Nord che si liberi dalla cosiddetta zavorra del Sud e possa competere in Europa. Ne è testimonianza la posizione dell’Emilia Romagna, che, a prescindere dai contenuti più o meno differenti dalle proposte di Veneto e Lombardia, sta adottando la stessa procedura opaca, priva di confronto, nelle segrete stanze del governo leghista, per portare avanti la proposta di autonomia regionale differenziata.

Io definisco questa corrente d’opinione “il partito del Nord”.

L’idea di questo partito è che l’Italia descritta dalla Costituzione abbia fallito, e che quindi, almeno, si salvi la parte più forte e produttiva del Paese mettendola in grado di competere con le altre economie, secondo un modello economico “aggressivo e vincente”, eliminando, se necessario, le garanzie e i diritti che l’Italia ha garantito in questo dopoguerra.

Detto in altri termini, un modello di società iperliberista, in cui la ricchezza dei pochi si regge sulle sofferenze dei molti.

Questa posizione ha però avuto la possibilità di diventare egemone proprio perché non c’è stata una differente proposta a contrastarla.

Se nel profondo Nord la Lega è votata anche da moltissimi lavoratori, tantissimi iscritti alla CGIL, se in gran parte dell’elettorato del PD (e non solo) delle regioni del Nord c’è una neanche tanto nascosta adesione al “partito del Nord”, è perché non funziona più quel modello di stato centrale che, fino ad un certo momento storico, ha garantito una crescita, un benessere, una sicurezza nelle prospettive di vita a tutti gli italiani, insieme.

Quel modello di stato è venuto meno per le citate condizioni internazionali, a cui facevo riferimento in apertura, ma anche per ragioni tutte italiane, di inefficienza, corruzione, eccesso di burocrazia, al Nord come al Sud, si badi bene.

Sicuramente ha anche pesato l’Europa dell’Euro e dei vincoli di bilancio, che hanno impedito l’attuazione di politiche espansive e perequative, che negli anni 60 e 70 hanno consentito di conciliare in maniera morbida redistribuzione delle risorse con crescita economica.

Resta però un dato di fatto oggettivo: lo stato che fino agli anni ‘80 interveniva nell’economia, creando un welfare universale fra i migliori al mondo, ha abbandonato al mercato il controllo del Paese.

Lo stato ha smobilitato. E con esso le tradizionali forze politiche che del ruolo attivo dello stato nell’economia facevano il centro del proprio progetto politico.

Di fronte a questa debacle la sinistra ha reagito in due modi, opposti, e per certi versi frutto della stessa mancanza di strategia.

Abbiamo visto, per un verso, l’involuzione di quella che fu la più grande forza della sinistra europea, rassegnatasi ad essere mero gestore dell’esistente, cercando addirittura di competere con la destra sul suo stesso terreno.

Una delle tante riprove di ciò sta proprio nella genesi della sciagurata riforma del titolo V della Costituzione, voluta per contendere alla Lega gli elettori nel nord Italia.

Dall’altro verso la sinistra radicale ha invece avuto una reazione di sostanziale immobilità, esprimendo, su questo argomento, un rifiuto a priori del concetto di autonomia a tutti i livelli, dalla scuola all’organizzazione dello stato, limitandosi a riproporre la conservazione dello status quo.

La sinistra radicale ha confuso la giusta difesa dei valori costituzionali, con la difesa delle forme di organizzazione dello stato edificate nella prima Repubblica.

Quella forma di stato non funziona più perché in un contesto economico globalizzato, uno stato di 60 milioni di persone non ha la forza, per condurre una propria politica economica autonoma. Per questo servirebbe una vera Europa, ma ci tornerò in conclusione.

Quella forma di stato non funziona più per i mutamenti intervenuti nella struttura economica, quei mutamenti che chiamiamo globalizzazione e che significano finanziarizzazione dell’economia, automazione e conseguente riduzione o scomparsa di molto del lavoro come lo conoscevamo nel ‘900, significano possibilità di delocalizzare le imprese, muovere velocemente i capitali, significano imprese private multinazionali che hanno dei bilanci paragonabili, se non superiori, a quelli di molti stati nazionali.

Per dirla in poche semplici e drastiche parole, la globalizzazione ha lasciato un unico ruolo agli stati nazionali: quello di controllare i cittadini e privarli degli spazi di democrazia e dei diritti che avevano conquistato nel secondo dopoguerra. Nel luglio del 2001, a Genova, durante il vertice del G8, abbiamo avuto una palese e drammatica esemplificazione del concetto.

Questo disegno di restrizione degli spazi di democrazia e della quota di risorse economiche disponibili, lo hanno intuito i lavoratori, i cittadini delle periferie, della classe media, delle zone più povere del paese, i quali di fronte ad una crisi che ha eroso progressivamente il loro potere di acquisto, non hanno, giustamente, ritenuto credibile una proposta politica fatta solo di conservazione dell’esistente, come nel caso della sinistra radicale, o di arrendevole accettazione della sconfitta, come nel caso del PD, e si sono fatti attrarre, in mancanza d’altro, dalle sirene di una destra xenofoba e sovranista.

Oppure, il che è lo stesso, hanno rinunciato ad esercitare ogni diritto di partecipazione politica. Un’astensione che ormai si avvicina al 50% ne è la prova.

Quello che questi cittadini non sanno, anche perché nessuno glielo dice chiaramente, è che quando il progetto di dissoluzione delle forme politiche nelle quali viviamo, lo stato unitario, la stessa Europa, sarà completato, essi, cioè noi tutti, si ritroveranno senza diritti, senza certezze, ancora più soli e indifesi nelle periferie delle grandi città, in simulacri di stati che assomiglieranno all’Ungheria o alla Polonia, dove il potere economico mondiale, quello forte, imporrà le condizioni e governerà con la complicità di classi dirigenti locali mantenute nel benessere al solo scopo di asservire la maggior parte delle popolazioni.

Il progetto di dissoluzione della scuola pubblica, che viene da lontano, può essere meglio compreso alla luce di questo fosco scenario: il tentativo è quello di assoggettare la scuola alle regole del mercato e toglierle il ruolo di comunità educante, nella quale crescono i cittadini del domani.

E allora cosa si chiede ad una sinistra socialista moderna, che voglia porsi l’obiettivo di contrastare tutto questo?

Si chiede coraggio e intelligenza.

Il coraggio di continuare a difendere i principi scritti nella Costituzione, di continuare a lottare per l’uguaglianza, per un welfare universale, per la libertà degli individui, per un mondo in pace, libero da guerre e nel quale le persone non siano costrette a fuggire dalle proprie terre devastate da conflitti o da catastrofi ambientali .

L’intelligenza di capire in che modo perseguire quegli obiettivi nelle mutate condizioni di contesto.

Da questo punto di vista il concetto di autonomia assume un ruolo importantissimo.

Il più importante riferimento all’autonomia lo troviamo nell’articolo 5, che dice:

La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento

L’autonomia disegnata dall’articolo 5 è la negazione della globalizzazione.

Seguendo la nostra Costituzione, se volessimo combinare il secondo comma dell’articolo 3 con l’articolo 5, potremmo immaginare uno stato forte nel sancire e difendere i principi generali indicati dalla Costituzione, garantire i servizi universali (energia, acqua, salute, trasporti, ambiente, difesa della legalità) in modo uguale per tutti e su tutto il territorio.

Uno stato che fornisca un substrato culturale comune a tutti gli italiani, con una scuola pubblica, libera da qualsiasi condizionamento politico, e da qualsiasi ricatto economico che la renda subalterna alle aziende operanti nel territorio.

E che lasci poi alle comunità locali la libertà di autogestirsi, senza strangolarle con una burocrazia opprimente e inutile.

L’autonomia di cui si parla nell’articolo 5 è quella per cui la sinistra ha lottato per anni: è quella che portò, negli anni 70, a costituire i comitati dei quartieri, gli organi collegiali nelle scuole, a volere i consigli di fabbrica, a creare organi di governo del territorio per difendere parchi e comunità montane.

E’ l’autonomia dei corpi intermedi.

E’ l’autonomia delle piccole realtà in cui vive e lavora la gente, gestite da amministratori vicini e controllabili.

Questa autonomia si può attuare solo in uno stato comune, che, secondo il principio di solidarietà scritto nell’articolo 2 della Costituzione, raccoglie e redistribuisce risorse, aiutando le aree svantaggiate, investendo in grandi opere pubbliche e garantendo alle autonomie locali ampia libertà organizzativa, risorse adeguate, e, ovviamente, un controllo di legalità degno di questo nome, per evitare la degenerazione del regionalismo criminale che abbiamo conosciuto in questi anni.

Questa autonomia è l’unica che può mobilitare territori, riattivare la partecipazione e la solidarietà fra le persone, opporsi ai poteri forti.

L’autonomia non ha nulla a che fare con il progetto del Partito del Nord, che vorrebbe un potere centralistico a livello regionale, distante dai cittadini, forte di un meccanismo di governo maggioritario e poco rappresentativo, che limiterebbe e assoggetterebbe nel suo territorio ogni forma di autonomia.

Non è un caso che il sindaco di Milano, Sala, si sia espresso decisamente contro questo progetto che limiterebbe all’inverosimile l’autonomia dei comuni.

Che quella del Partito del Nord sia una falsa autonomia lo ha capito anche il mondo della scuola. Le scuole hanno adesso un ampio margine di autonomia, garantito dalle istituzioni nazionali, che con la proposta in discussione sparirebbe, asservendo le scuole al controllo politico regionale.

L’autonomia che deve perseguire una sinistra moderna non è l’autonomia del più forte che trattiene per sé tutto quello che può, ma è l’autonomia di chi capisce che in questo mondo siamo tutti interdipendenti. Tutti liberi, ma consapevoli che la nostra libertà è garantita proprio dallo stare insieme, sotto un’unica bandiera, mettendo in comune le forze.

Questa idea è la stessa, e la sola, che può ridare un senso alla prospettiva Europea. L’Europa dei mercati, della burocrazia, quella che i cittadini non sopportano più, non è la casa comune che i popoli europei sognavano, e di cui hanno bisogno.

Il vero obiettivo è una casa comune europea, che sappia coniugare il principio delle autonomie con l’idea di un continente unito, con valori e cultura in comune.

Una casa comune forte, in grado di competere sul mercato mondiale, di saper difendere un proprio modello economico condiviso, e capace di contare sulla scena internazionale, in grado di gestire situazioni drammatiche come quelle che si vivono nel continente africano, una casa in cui vengano rispettate le peculiarità locali, in cui gli europei si sentano liberi di organizzarsi e muoversi senza l’assillo di un potere stringente e lontano.

Una casa comune che abbia la forza per ridare alla politica il controllo sull’economia.

La battaglia non è, e non deve essere, “contro l’autonomia”, ma contro chi vuole togliere ai popoli i propri diritti, le proprie sicurezze, la propria libertà.

Se sapremo dire questo riusciremo a proporre agli italiani un nuovo modello di Paese per il quale credere e lottare.

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