Governo
L’austerità di Berlinguer non è quella della Merkel (e di Cottarelli & co.)
Mia nonna era parsimoniosa, accantonava le monete da dieci lire, cenava a riso in bianco e mela. Era una donna obiettivamente austera; quindi era come Wolfgang Schaeuble.
Se questo sillogismo vi sembra un’idiozia indegna dell’abbrivio ad un articolo degli StatiGenerali, avreste dovuto sentire l’altra sera nella trasmissione politica del giovedi, Carlo Cottarelli e Antonio Caprarica affermare che giacchè Berlinguer negli anni settanta sosteneva l’austerità, di conseguenza oggi approverebbe le politiche di rigore dei conti; il quale rigore, peraltro, “non è di destra o di sinistra, è giusto”. Il fatto che l’austerity degli anni settanta – evidentemente tutt’altra cosa -, si ambientasse in un paese che usciva da un trentennio di sviluppo e con un’inflazione al 20%, e oggi l’Italia esca da un trentennio di stagnazione-declino-recessione con un’inflazione all’uno scarso per cento, è evidentemente un particolare trascurabile. L’obiettivo era arruolare Berlinguer fra le fila dei responsabili e del buon senso degli austeri, e quindi: buona la prima.
La politica del Tina (there is no alternative – non ci sono alternative), ossia il famoso baratro sul quale ci hanno costretto a passeggiare per anni come uno spauracchio per convincerci che ogni scarto dall’austerità europea sarebbe stato “un salto nel buio”, ha fatto in queste settimane, invece, un salto di qualità.
Per gli anni della crisi, infatti, quelle politiche erano presentate come una scelta dolorosa ma necessaria, le uniche possibili in quella fase, e a cui la sinistra per “responsabilità” doveva aggiogarsi; oggi, differentemente, l’argomento è che quelle politiche sono giuste per il Paese e chi non le condivide, semplicemente, non ha cittadinanza nel dibattito. E quando il “giusto” e l’”unico” coincidono, è proprio una bella coincidenza.
Naturalmente, l’esito delle elezioni ha avuto in tal senso una certa influenza; il rischio che i sedicenti vincitori, facondi promettitori, scartassero dalla linea era evidentemente vissuto come una minaccia. E infatti è iniziata la robusta batteria di fuoco degli opinionisti del buon senso. Non val nemmeno la pena di citare il duo Alesina Giavazzi, perché per lo meno in loro vi è una ferma coerenza nell’auspicare il commissariamento di ogni paese che inopinatamente si ostini a voler essere democratico. Qualche giorno fa, Ferruccio De Bortoli, ha indicato il Portogallo quale esempio per l’Italia (la quale è pur sempre il settimo paese manifatturiero del mondo, il secondo europeo); e ha individuato le ragioni della precaria situazione attuale nell’avere scelto dal 2011 di governarsi da sola tentando di annacquare le politiche di Schaeuble, e non, invece, di affidarsi fedelmente e pedissequamente a quest’ultimo. Inoltre, proseguendo nell’indicare le ragioni della sconfitta dei socialisti europei, le ha attribuite all’essersi opposti all’austerità. Innanzitutto: ma quando mai; e inoltre: cornuti, e mazziati.
In assenza di un governo, e in maniera un pò improvvisata, l’Italia sta faticosamente elaborando una manovra di bilancio; il Paese, tutt’altro che risanato sul piano economico, e anzi infettato nella sfera sociale e istituzionale, presenta quasi solamente due indicatori in crescita: l’avanzo primario e un debole incremento dei consumi. Bene, rispetto al primo, ottenuto con gli sforzi conseguiti a frustate dalle politiche europee, proprio Cottarelli, dalle pagine del Sole24Ore ha detto che andrebbe raddoppiato (sic). Quanto al secondo parametro, la crescita dei consumi dopo anni di recessione, come l’anno scorso l’Italia si trova davanti ad un bivio: fronteggiare un aumento dell’Iva dal 22 al 24 e rotti per cento l’anno prossimo e poi, l’anno dopo, al 25%; oppure “sterilizzare la clausola”, ossia impiegare i ricavi delle tasse per non aumentare la tassa. In ognuno dei due casi, da un lato, frustri i consumi, e dall’altro lato, sottrai allo Stato praticamente tutte le risorse disponibili per produrre investimenti e sviluppo: il tutto, per una “clausola”.
Ora, dopo dieci anni di crisi, la perdita di una montagna di Pil e produzione industriale, la caduta di investimenti pubblici e privati, l’aumento della disoccupazione e la vetta mostruosa della disoccupazione giovanile, l’aumento delle diseguaglianze, il concentrarsi della ricchezza a discapito delle periferie – di città, Paese, società, continente – eccetera eccetera, diciamocelo: ma dove risiede la logica, ma in quale manuale è scritto che una crisi si affronta così, in maniera prociclica, ma come fai a definirlo “buon senso”?
Nondimeno, non riapriamo questo annoso problema, facciamocene una ragione, prendiamolo come dato di fatto, inseriamolo nell’analisi generale.
Gli italiani, cittadini di questa espressione geografica della periferia europea meridionale, da anni ogni volta che hanno potuto liberamente esprimersi hanno votato contro questo stato di fatto. Non tanto e non certo perché avessero approfondito i fondamenti delle politiche economiche alternative, quanto perché – indirettamente – percepivano un crescente malessere economico e – giusto o sbagliato che fosse – lo attribuivano alle politiche imposte dall’Europa. A tale malessere, il comportamento tenuto dalle istituzioni continentali nei confronti dell’eccezionale fenomeno migratorio di questi anni, ha dato pure un ulteriore connotato sociale.
Il voto del 4 marzo non è un’improvvisa epifania; è l’esito di un processo manifestatosi con sempre maggiore chiarezza. L’esistenza di un malessere economico, fotografato da tutte le analisi del voto, è evidente nella distribuzione del Pil italiano: intere aree del Paese sono oramai più nord Africa che Europa. Questo malessere ha negli anni scorsi insistentemente cercato una voce per esprimersi; lo stesso Renzi aveva costruito il 40% alle Europee su parole d’ordine – peraltro avallate dall’ingresso del Pd nel Pse, in un momento in cui quest’ultimo pareva poter essere “rivitalizzato” – di cambiamento delle politiche economiche: “dalla stabilità alla crescita”.
Nondimeno, l’assioma inviolabile è che le politiche europee, per i rapporti di forza e la volontà politica vigenti, non si possono in alcun modo cambiare; punto. Il malessere, sotto, e tale rigidità, sopra, hanno prodotto la morsa che ha progressivamente stritolato chiunque abbia provato a rappresentare politicamente la condizione materiale del Paese in questi anni.
Ed è per questo che la durata media di ogni leadership è diminuita drasticamente avvicinando in maniera imbarazzante l’alba e il tramonto delle esperienze politiche di chi abbia voluto fare il mestiere dell’uomo di stato. Conviene osservarli con comprensione questi individui, come soldati che escano di corsa dalla trincea sulla linea del fronte: non c’è gloria possibile in tali condizioni, solo il martirio.
Si è detto, insomma, che gli italiani hanno “votato con la pancia e non con la testa”. È così, è chiaro, ed è stato espresso via via in maniera sempre più palese, quali siano l’interesse e la volontà della grande maggioranza degli italiani che, pure questa volta, al posto di non andare a votare – come forse qualcuno a questo punto poteva sperare, in modo da ridurre la base sociale della democrazia e continuare nella finzione – ha di nuovo pensato di riaffermare con forza che il malessere non è rappresentato; e ne ha ricercato una rappresentanza.
Solo che, al posto di comprendere il messaggio, la rigidità “a monte” sembra consolidarsi, invece che ammorbidirsi, la minaccia dei mercati che puniranno chi trasgredisce – i mercati impersonali, questa entità metafisica e idealistica come se, ancora, non esistessero i rapporti di forza e gli interessi di classe – si fa sempre più esplicita, evidente, prepotente.
Il punto è, che cosa succederà adesso? Occorre chiedersi che cosa potrebbe accadere se i presunti vincitori, dopo avere ammansito con le promesse gli elettori illudendoli per l’ennesima volta di avere trovato una voce, li deludessero ulteriormente; del resto, questo avverrà necessariamente, perché non c’è alternativa e gli assiomi europei non sono destinati a cambiare.
I cittadini italiani, leggendo gli appelli alla responsabilità da parte degli opinionisti di buon senso, potrebbero improvvisamente farsi mansueti, e accettare il proprio destino; oppure, potrebbero pazientemente ricercare una nuova voce che li illuda nuovamente di essere rappresentati. Forse, potrebbero decidere di attendere che qualcuno, analizzando la situazione materiale del Paese magari alla luce di valori progressisti, elabori progetti di riforme sociali a cui, peraltro, nel quadro vigente, mancherebbero sempre risorse per essere realizzati.
Oppure no; e se quell’incrocio fosse già superato, e il malessere, che ormai ha assunto caratteri qualunquisti, egoisti, e razzisti, non fosse più incanalabile nei futuri processi democratici? E se il prezzo della stabilità dei conti fosse stato un futuro disordine sociale, politico e istituzionale?
Sarebbe il colmo per le persone di “buon senso”, in particolare per i progressisti che dolorosamente hanno abiurato ai propri valori e alle proprie convinzioni culturali in materia economica, se l’effetto di anni di sforzi responsabili fosse nell’immediato futuro il caos, la diseguaglianza, e l’aggravamento dell’instabilità democratica. Sarebbe proprio una bella responsabilità, la loro.
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