Governo
Abbiamo bisogno di bellezza e Innovazione per curarci in questi tempi pazzi
Non è mai un buon segno quando per spiegare le vicende della vita democratica di un Paese bisogna far ricorso a discipline come la psichiatria, ad arti come la drammaturgia (genere pochade) o a straordinari saperi di strada come la psico-sociologia dei biscazzieri e degli imbonitori.
Non lo è perché ogniqualvolta si debbano spiegare le vicende di un Paese con categorie esogene alla politica e pertinenti allo studio o alla ridicolizzazione di comportamenti asociali, o comunque patologici, significa che il patto sociale ha subito qualche forma di choc più o meno violento e che quelle categorie e convinzioni che la maggioranza dei cittadini condividono sono sottoposti ad uno stress test molto rilevante.
Le ultime settimane del Governo Salvini-Di Maio (nel quale l’avvocato appulo è sempre più grottesca figura di pupo) hanno messo a durissima, decisiva, fallimentare prova tutti i tentativi di spiegare le vicende della politica con categorie della politica o comunque estranee al lettino dello psicanalista, al cabaret, al gioco delle tre carte in metropolitana.
Non solo l’usurata contrapposizione destra-sinistra, ma anche la separazione dei poteri che bene o male durava da Montesquieu e finanche qualsivoglia principio di non contraddizione sono stati seppelliti dalle giravolte, dalle menzogne palesi, dalla tracotante ignoranza di un governo che ha preso i voti su un contratto di governo pericoloso e irrealizzabile e che gioca continuamente ad alzare il livello dello scontro, salvo poi tornare a miti consigli.
Questa continua violenza ed entropia è costitutiva di una maggioranza che deve tenere insieme promesse perniciose (Disneyland a Taranto) e il progetto di Caos dei suoli inspiratori internazionali (bella la foto di Salvini con Steve Bannon, uno che dovrebbe avere il foglio di via dall’Unione Europea) ma fa bene al corpo della società come mangiare per anni a pranzo e cena un kebab completo.
La sovreccitazione da immediatezza (bel libro di Francesco Rutelli in proposito), in virtù della quale si governa per produrre tweet fighi, che Rocco Casalino o La Bestia rivendono ai tossici della stampa, crea un microclima di irresponsabilità diffusa, che è pernicioso per qualunque comunità perché toglie certezze e le sostituisce con ansia e rabbia constante.
Pensate sia un problema? Non per Steve Bannon e i suoi amici, che inscatoleranno la vostra rabbia e la venderanno in giro per il mondo, perché il vostro disagio è il loro petrolio.
Gli unici ad aver capito la fregatura sino ad oggi sono stati quegli imprenditori, soprattutto dell’operoso Nordest, che hanno capito che: Salvini si è venduto ai 5 Stelle la crescita in cambio della mano libera su temi, su tutti l’immigrazione, che sfondano nelle classi bassi e nelle plebi meridionali, oggi il vero obiettivo dell’amico di Steve Bannon; i 5 Stelle governano vellicando ogni estremismo, dai vaccini ai No Tav (anche sulla Milano-Venezia, follia criminale!), tanto poi qualcuno li rimette in riga ma intanto hanno dato qualcosa in pasto ai loro freak; parlando entrambi al basso ventre del Paese, agli esclusi dalla contemporaneità, seriamente rivendono ricette scadute e inapplicabili dal Decreto Dignità alle castronerie sull’ILVA, dalle nazionalizzazioni (brrr…) all’operazione amish delle chiusure domenicali.
Questa crepa non è solo l’unica crepa significativa apertasi nella coalizione di maggioranza (ché Fico è nomen omen una foglia) ma anche e chiaramente la più sostanziale e promettente, perché dimostra una cosa fondamentale, ossia che con il sovranismo non si cresce ma si gestisce al massimo un bilioso declino.
È un peccato che la potenzialità di queste contraddizioni non sia stata minimamente colta da chi sta ciclotimicamente cercando di organizzare l’opposizione a un governo di buoni a nulla e capaci di tutto (cit., Marco ci manchi).
Attenzione ai produttori e al lavoro, attenzione alla dimensione territoriale come costitutiva dell’Italia sociale, culturale, economica e politica, apertura alla tecnologia e all’innovazione non come generico nuovissimo, ma come chiave per fare crescere il Paese nel rispetto delle sue potenzialità e caratteristiche, apertura al mondo perché da Colombo in poi esportiamo intelligenza basterebbero ampiamente a fare da base per un programma elettorale con gli attributi.
Spiace invece constatare come nel principale partito di opposizione si continui a pensare che “se fossimo stati davvero noi stessi, tutto questo non sarebbe accaduto”, a ritenere “sinistra” un concetto attuale, chiaro e spendibile nell’era del reddito di cittadinanza e delle nazionalizzazioni, a ritenere che il governo sia fatto di mostri (Salvini, è facile) e di “compagni che sbagliano”.
Spiace, non tanto per il PD, ma perché questa incertezza sui fondamentali (nel 2018 si sta bene se si cresce, la tecnologia va governata e può fare molto bene, l’Italia ha un sistema di impresa diffusa che tiene in piedi il Paese, il territorio e la sua biodiversità sono un valore che si sta perdendo e deve essere tutelato non con i muri ma con i ponti) ci fa perdere tempo, serenità e denaro. Come ha recentemente scritto Marco Bettiol in un bell’articolo, il Sovranismo non fa vendere il prosecco e dunque danneggia questo come molti altri mercati, mentre lo Stato etico che imporrà le chiusure domenicali dei negozi (tanto nel mondo di Salvini le femmine stanno a casa a stirare le camicie e vanno a fare la spesa il martedì) non ricostruirà le famiglie ma porterà qualche migliaio di nuovi disoccupati.
L’opposizione che discute ombelicalmente di congressi per fregarsi meglio, che va a Taranto senza avere il coraggio di difendere il lavoro e le scelte del proprio Governo, che straparla di popolo ed élite, non corre a parlare con gli imprenditori delusi dalle politiche anti impresa del Governo e non fa le barricate perché chi lavora ha diritto a fare la spesa la domenica non è solo inutile, ma partecipa dell’impazzimento generale, ne è corresponsabile.
Pensare che il problema siano solo i disgraziati della Diciotti e che tutto sommato le nazionalizzazioni non sono un’idea così pessima è a sua volta un problema enorme, quello dell’opposizione politica che è afasica non solo perché le ferite della sconfitta sono recenti, ma perché non ha ancora capito il nemico, ne è in parte affascinata e soprattutto, nonostante non manchino gli stimoli e le intelligenze, non ha un’idea di Paese alternativa da opporre, un gancio per connettersi a quei settori più dinamici della società e un altro per offrire a chi è rimasto indietro un’alternativa all’attuale torbida rabbia.
Una speranza, insomma, perché una comunità deve sempre averne una.
Come? È difficile immaginarsi qualcosa di diverso dallo stare su Twitter come certificazione dell’esistenza in vita, esorcismo della “visibilità zero” dell’Onorevole Slucca nel romanzo di Fruttero e Lucentini? Non si sa cosa dire agli imprenditori non titolari di concessioni pubbliche e non quotati in Borsa e allo stesso tempo non si sa cosa dire ai poveri arrabbiati? È difficile costruire una rete territoriale dopo che si è lavorato alacremente per spianare ogni autonomia locale sulla base dell’assunto (anche vero) che fossero centri di potere magari opachi ma non ci si è posti il problema di cosa rimaneva dopo aver centralizzato tutto?
Certamente si, è tutto vero e tremendamente difficile e sono stati compiuti errori anche drammatici ma bisogna iniziare. Non dopo aver tumulato Renzi, subito.
Un progetto di Paese è meno lontano di quanto sembri.
Investendo sull’innovazione dell’impresa diffusa possiamo recuperare almeno due punti di PIL nei prossimi 10 anni e creare lavoro. Lavorando sulle comunità locali e sulla loro connessione al mondo possiamo fare crescere giovani leader e cercare di arrestare quei processi di spopolamento del Paese che partono dal non avere contrastato efficacemente la polarizzazione dell’Italia in due macro città (come le telenovelas argentine Milano la virtuosa e Roma la cattiva). Attorno a un principio di speranza possiamo attutire la rabbia di un Paese incattivito e fare il nostro dovere e avere il nostro posto verso Sud e verso Nord.
Per fare tutto questo non serve e non è possibile tornare indietro all’Ulivo, né pensare di recuperare fantomatici “popoli” di elettori (anche perché a me i No Vax urtano il sistema nervoso).
L’unica marcia possibile è quella avanti, sperimentando e innovando con nuovi contenuti, nuovi messaggi e nuovi media il tentativo di riconnettersi al Paese reale e di riportarlo nel campo dell’ottimismo della volontà.
La mostra Homo Faber che si aprirà la prossima settimana Venezia ci racconta ancora un volta un mondo, quello del lavoro artigiano che incontra l’innovazione e la bellezza, che potrebbe dire e dare moltissimo a chi vuole spendersi per contrastare attivamente il declino presente e gli impresari della paura che lo guidano. Andatela a vedere.
Che almeno la bellezza ci curi in questi tempi pazzi e ci ispiri tempi migliori.
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