Governo

A proposito di Renzi e la leadership

6 Luglio 2016

Prendere la parola pubblicamente comporta sempre delle responsabilità, specie per chi è osservatore e studioso, sempre che non interpreti il proprio ruolo al servizio non della comprensione, per quanto possibile, del reale, ma di una parte politica o dell’altra.

Per questo sento il dovere di sviluppare in modo più esauriente e approfondito la tesi che ho illustrato in quattro minuti mercoledì scorso a Omnibus, ospite di Gaia Tortora, sulla carenza di leadership di Matteo Renzi. Quell’intervento è stato trasformato da La7 in una clip che ha circolato parecchio sul web e suscitato consensi e critiche, oltre al solito pacchetto di insulti personali che riceve chi si esprime sui social. Tra le osservazioni ricevute ve ne sono state alcune che hanno lamentato una carente argomentazione della mia opinione; giustamente, non solo per il breve tempo, ma anche perché in Televisione – almeno a me capita così – non sempre ti vengono in mente, proprio in quel momento, tutte le cose sulle quali hai riflettuto.

Dunque, approfitto della parola scritta per illustrare meglio il mio punto.

Ritengo, come ho detto, che in Renzi vi siano delle significative carenze nell’esercizio della sua leadership. Nella fase “originaria”, di costruzione della medesima, non vi è dubbio che emersero diversi indicatori dell’avvento di una leadership: le primarie fiorentine e la conquista del comune di Firenze, la sconfitta molto onorevole alle primarie del 2012, il crescendo di entusiasmi, almeno fino al 2012, attorno alla Leopolda, sino a quell’anno decisamente dai tratti vigorosamente “anti” e di rottura, la conquista della segreteria nel 2013. Ma anche la sua retorica, compresa quella della rottamazione, espressa con vigore e che consentiva di delineare un orizzonte, ovvero il rinnovamento del ceto politico e della stessa politica, la rottura di vecchi equilibri consolidati e ostativi per lo sviluppo del Paese e di una sinistra riformista e moderna.

Poi arrivò la presa del Palazzo. Il modo lo conosciamo tutti. Sul piano dell’immagine quel modo rappresentò una contraddizione rispetto alla visione fino a quel momento rivendicata da Renzi di un potere da conquistarsi con il consenso dei cittadini per legittimare il cambiamento. Ma molti furono convinti dalla narrazione dello “stato di necessità”.

Tuttavia, da allora ad oggi l’esercizio del potere e il modo in cui esso è stato comunicato da parte di Renzi lascia diverse perplessità, proprio in merito alla costruzione di una leadership efficace e convincente.

Una leadership di questo tipo richiede la capacità di costruire una “comunità emotiva” (dai livelli di intensità ovviamente diversificati a seconda dell’ampiezza dei pubblici di riferimento), che implica un’identificazione dei seguaci negli obiettivi comuni indicati dal leader e nello stesso leader nella misura in cui questo incarna quegli obiettivi. Ciò richiede da parte del leader medesimo un uso sapiente del soft power, ovvero di quel sottile potere di seduzione, convinzione, fascinazione, in grado di toccare nel profondo chi crede in lui, di “trasformarlo” direbbe McGregor Burns, che concettualizzò l’idea di leadership trasformativa, per mobilitarlo e renderlo partecipe del processo di trasformazione. Una trasformazione interiore che diventa a sua volta leva di trasformazioni dell’ “ambiente”. Ciò avviene anzitutto attraverso l’uso di una retorica coinvolgente, l’esempio, l’esortazione di fronte a difficoltà collettive, la realizzazione di successi e così via.

Nel caso del Renzi di governo noi abbiamo osservato una retorica molto elementare, didascalica (si pensi all’uso di slide dai contenuti banalizzanti dei dati di  realtà) con la quale si promettevano realizzazioni mirabolanti in tempi velocissimi, priva però di una visione di fondo, di un’idea di politica e di società che andasse oltre slogan semplicistici e poco suscettibili di “scaldare” davvero e convincere. Una retorica, inoltre, diretta unicamente ad un pubblico piuttosto semplice, che non ha mai tenuto conto dell’esistenza di pubblici diversi con diverse aspettative (si pensi al registro con il quale si è in diversi casi rivolto ai parlamentari, di poco superiore a quello utilizzato a Domenica Live). Per diversi mesi una buona parte di italiani, stanchi di uno stato di cose gravemente insoddisfacente e soprattutto “immobile”, gli ha fornito credito, benedicendo ancora  la sua avanzata come leader con il successo delle europee del 2014. Intanto, però, la retorica cominciava a cambiare, passando dai miracoli a un’idea di cose da fare e fatte dotate di valore soprattutto per il loro essere “almeno qualcosa”, un passo avanti rispetto al passato, un cambio di rotta anche se appena percettibile.  Piano piano si è passati dall’inverosimile (un cambio repentino realizzato da un eroe e un pugno di amici) ad una mediocrità di obiettivi, con una narrazione sempre più ossessiva e sulla difensiva delle cose “fatte” e dei meriti dei nuovi riformatori.  Nell’uno e nell’altro caso racconti poco consoni per produrre davvero un effetto di trascinamento e mobilitazione.

Anche nei confronti del partito, la leadership renziana non è stata per nulla convincente. Il nuovo segretario, infatti, se da un lato ha messo in moto processi di autonomizzazione del proprio ruolo da quello del partito, come accade anche nel contesto di altre democrazie e altri partiti “presidenzializzati”, dall’altro si è posto rispetto alla sua organizzazione come soprattutto detentore di hard power, affermando l’idea del “o con me o contro di me”, distribuendo ruoli a personaggi spesso  improbabili, ma fedeli,  accogliendo con altrettanti ruoli disinvolti trasformisti, scendendo a patti con potentati territoriali del suo partito. Il bastone e la carota, minacce ed incentivi: strumenti di chi vuole gestire il potere più che trasformare il reale. Proprio alla direzione di lunedì 4 luglio lo stesso Renzi si è lamentato di quanti stanno scendendo dal carro: inevitabile quando chi segue il capo lo fa soprattutto per convenienza. E a questi si è rivolto non, ad esempio, accusandoli, che so, di tradire un sogno, ma minacciandoli di non farli più risalire sul carro; ancora il bastone e la carota.

Non ha visto il partito come una forza viva da incorporare nel suo progetto di trasformazione, poiché quel progetto ha ritenuto – con un atteggiamento che paradossalmente potremmo definire “impolitico” – potesse essere realizzato semplicemente (un po’ come il Berlusconi del “ghe pensi mi”) attraverso le leve del governo. Come se il “fare” ai vertici di una comunità politica potesse escludere la complessità della politica. Il partito è sempre stato considerato ora uno strumento, ora una seccatura e su di esso Renzi non ha investito granché. Dentro al partito si è mosso come un capo infastidito, non come un leader desideroso di conquistare militanti, quadri, eletti, al suo nuovo progetto.

Infine, il progetto, appunto. La qualità del quale attraversa come un filo rosso tutto quanto detto finora. Dopo la rottamazione che così potente si è rivelata nella fase originaria come arma di convincimento e mobilitazione, gli obiettivi, l’orizzonte, sono divenuti indefiniti. E’ stato veicolato come discorso di governo un mix di ingredienti quali il pragmatismo, l’incrementalismo, il bricolage, l’autoincensamento sempre e comunque, la contrapposizione ad avversari sempre più indefiniti, il racconto quotidiano di un’Italia in ripresa forse un po’ stridente con l’esperienza di molti cittadini e di successi internazionali non proprio molto evidenti. La direzione, che il leader dovrebbe indicare, è apparsa sempre più sfumata, e ciò ha inciso inevitabilmente sulla credibilità del leader stesso. Credibilità, sia detto, che non è stata aiutata dal frequente rifuggire da parole e presenze in momenti drammatici per il Paese.

E se la fragilità della visione è da addebitarsi alla persona del leader, quella del progetto ha risentito anche dell’incapacità di costruire attorno a sé un gruppo in grado di fornirgli la produzione di un pensiero continuo, articolato e complesso sui diversi aspetti del governo, della comunicazione, della costruzione del partito. Si è avvalso di volta in volta di consiglieri più o meno competenti, ma certamente non particolarmente forti e autonomi da produrre un pensiero proprio anche in contrasto con il capo, utilizzati a seconda degli scopi contingenti (ad esempio dare credibilità a qualche sua estemporanea idea di “politica economica”). Nulla di simile ad una vera squadra (sul tema mi permetto di rimandare a Allegranti-Ventura su Rivista di politica, 2, 2014); ma la costruzione di una squadra efficace, di persone leali (non fedeli), in grado di dare corpo al processo decisionale e fondamento alla decisione finale costituisce uno degli imperativi di una buona leadership.

Renzi ha intrapreso la strada del leader, dunque, nella prima fase della sua parabola, ma ad avviso di chi scrive non ha mantenuto la “promessa” e oggi è un “capo”, forse senza reali sfidanti, senza leader veri e propri che lo possano mettere in discussione, ma sempre un capo. E da un mero capo è più difficile attendersi grandi trasformazioni. Chi scrive, ma qui siamo nel campo delle opinioni personali, vede nella gestione del potere del capo Renzi essenzialmente la gestione del declino.

 

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