Governo
A chi giova il confronto muscolare sul referendum costituzionale?
Con grande anticipo sui tempi fisiologici è partita, nei fatti, la campagna referendaria. Sebbene questo inizio non stupisca gli osservatori più attenti è difficile non restare sbigottiti dai toni che stanno caratterizzando questi primi giorni di scontro. Uso volutamente il termine scontro e non confronto perché di una costruttiva battaglia sui temi, al momento, non si vede nemmeno l’ombra. Eppure l’asprezza delle posizioni ci permette di capire alcuni dati rilevanti, che potrebbero segnare il percorso della campagna nei prossimi mesi.
Prima di tutto – ma forse era il dato più scontato -, la dichiarazione del Ministro Boschi per cui in caso di sconfitta al referendum sia lei che Renzi sarebbero costretti a lasciare i loro incarichi, significa nei fatti personalizzare al massimo livello il confronto referendario. Se da un lato questo è un modo per assumersi, in modo apprezzabile, la responsabilità politica di una scelta, è dall’altra parte anche inevitabile che ciò catalizzi attorno alle posizioni del sì e del no sentimenti e posizioni politiche che poco hanno a che fare con la materia del contendere. Questa scelta presenta quindi una buona dose di azzardo politico, elemento comunque caratterizzante l’esercizio della leadership a cui ci ha abituati Matteo Renzi. Questo approccio ha come conseguenza l’inevitabile tracimazione della discussione fuori dall’alveo dei contenuti della riforma, mettendo a disagio chi vorrebbe invece prendere una decisione affidandosi esclusivamente alla fredda analisi dei pro e dei contro.
L’altro elemento che sta emergendo in modo alquanto vistoso, è l’apparente bisogno mostrato dai sostenitori del sì di utilizzare alcuni simboli storici caratterizzanti la storia della sinistra italiana. La battaglia aperta con l’ANPI e l’affermazione della Boschi per cui i “veri partigiani” voteranno sì alla riforma, la riesumazione della posizione del PCI sul monocameralismo e l’utilizzo insistito (e alquanto a sproposito) delle immagini e delle parole di grandi leader della sinistra come Iotti, Ingrao e Berlinguer, segnalano la necessità che ha questa nuova leadership di darsi una legittimità simbolica ad essa sconosciuta. Benchè grande parte del successo della scalata di Renzi e del suo gruppo dirigente sia legata ad un rifiuto palese della storia della sinistra italiana, accompagnata dalla demolizione del retaggio valoriale e culturale lasciato nel campo del centrosinistra, ecco che al momento del bisogno vengono estratti dall’armadio personalità e gruppi che hanno un posto di primo piano nell’immaginario della sinistra. Tale scelta non deve essere erroneamente interpretata come una forma di rivalutazione di quella eredità politica, ma bisogna leggerla sotto due altri punti di vista: 1) in politica i simboli, per quanto sgualciti e datati, hanno ancora una funzione importante nell’orientare alcune scelte politiche, perché riescono a creare identificazione e in qualche modo garantire “sicurezza” rispetto alla bontà e alla validità di una data decisione 2) dalle parti del comitato pormotore del sì potrebbe essersi radicata la preoccupazione che le continue rotture (anche sentimentali) con la sinistra del proprio schieramento, potrebbero avere delle severe ripercussioni sul risultato del referendum di ottobre (sulle amministrative di giugno credo si sia già dato per scontato un risultato non positivo). Per questo motivo diventa funzionale chiamare a raccolta una parte del famoso pantheon della sinistra formato da Berlinguer, Ingrao, Iotti e i partigiani “strappati” all’ANPI. Insomma, una parte cospicua di quelli che sono i miti delle generazioni cresciute nel PCI – o politicamente vicine a quel partito – e che forse sono considerate a rischio smbolitazione elettorale in vista del referendum.
Credo sia complicato fare delle valide previsioni sul tipo di risultato che potrà ottenere questa strategia, e una sua valutazione sarà possibile solo sul medio/lungo periodo. Indipendetemente da questo, sarebbe saggio interrogarsi anche sui modi in cui viene condotta questa campagna in cerca di legittimazione simbolica, e se questa sua “aggressività” non rischi di polarizzare ancora di più un confronto che ha già un buon grado di divisività insito nella sua forma. Così come da parte dei sostenitori del no è veramente fuori luogo agitare lo spettro di una non credibile deriva autoritaria, oppure ostinarsi a credere che la costituzione sia un strumento dato una volta e per sempre, da non riformare, considerando chiunque ne proponga una revisione come una sorta di attentatore alle stesse libertà costituzionali.
Torniamo così al punto di partenza di questa breve riflessione, ossia la lontananza dai temi concreti del referendum. Probabilmente personalizzare e polarizzare sono due scelte consapevoli fatte dal Presidente del Consiglio che ha capito bene quanto parlare alla pancia e alle emozioni degli elettori possa essere produttivo, sebbene porti con sé una dose non marginale di rischio politico. Quel che sembra certo è che il paese rischia di perdere l’ennesima occasione per aprire una discussione pubblica, partecipata e proficua su un tema vitale come l’assetto costituzionale delle proprie istituzioni. Forse questo passaggio può essere derubricato come l’illusione di chi voterà sì a questo referendum, come il sottoscritto, ma desidererebbe farlo con alle spalle una discussione seria, franca e finanche aspra sui contenuti. La preoccupazione è invece che si continuerà, da una parte e dall’altra, in quella forma di delegittimazione reciproca che ha contraddistinto gli ultimi vent’anni della vita politica di questo paese, così riducendo il confronto ad una dannosa divisione tra pro e anti Renzi.
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