Governo
Miliardi che mancano, diritti che spariscono: tutti i misteri del Jobs Act
Bisogna ammettere una triste ma serena verità: ai datori di lavoro italiani piacciono i contratti a tempo determinato.
Renzi lo sa benissimo, perché conosce i dati pubblicati dal Ministero del Lavoro: l’85% dei nuovi occupati, in Italia, vengono assunti con un contratto a tempo determinato.
Solo il 15% dei nuovi lavoratori venivano assunti con il “vecchio” contratto a tempo indeterminato, che aveva due caratteristiche poco gradite agli imprenditori: costava di più in termini fiscali di quelli a tempo determinato, e bisognava tenersi il lavoratore fino alla pensione, a meno che non se ne andasse dall’azienda sulle sue gambe.
Vent’anni di riforme delle leggi sul lavoro hanno aperto le porte alle nuove forme di contratti “precari”, che sono appunto graditissimi alla nostra imprenditoria.
E che portano ugualmente allo stato una buona messe contributiva, destinata ad alimentare le gestioni separate dell’INPS, utilissime a pagare le pensioni ai dirigenti e agli ex-lavoratori autonomi.
I precari hanno infatti il diritto di vedersi restituire i loro contributi – sotto forma di pensione – a determinate condizioni.
Solo chi ha versato per un minimo di cinque anni il 27% di un reddito minimale contributivo di almeno 15.357 euro all’anno potrà avere diritto alla pensione, gli altri perderanno i contributi che hanno versato. Si chiamano contributi silenti e vengono girati dall’INPS sulle altre gestioni in PERDITA: prima tra tutte quella dei liberi professionisti, in perdita per 12 miliardi all’anno.
I precari, quindi, piacciono a tutti: datori di lavoro e INPS.
Ma i precari sono una spina del fianco delle spinte populiste di Renzi, che ha promesso di estendere a tutti i lavoratori i “privilegi” concessi a quelli a tempo indeterminato, tra cui le ferie e la maternità.
Non vogliamo qui ricordare che la battaglia per le ferie venne fatta in Francia nel ’36, e che quindi puzza di strano rifarla in Italia nel 2015, ma il problema di Renzi è convincere i datori di lavoro a assumere questi benedetti precari. Da qui il colpo di genio del Jobs Act: il nuovo contratto a tempo indeterminato viene trasformato in un contratto a tempo determinato con la “clausola” del risarcimento economico da 4 a 24 mesi, quando il datore di lavoro decide di interromperlo. Ma agli imprenditori non basta perché si convincano a smettere di ricorrere ai contratti a tempo determinato.
Ecco allora spuntare l’incentivo fiscale per chi decide di applicare il nuovo contratto a tempo indeterminato: fino a 8.060 euro di sgravi fiscali all’anno alle imprese che adotteranno il nuovo contratto. I fondi che la Ragioneria di Stato deve stanziare a favore degli imprenditori italiani sono di 2 miliardi in tre anni: tale è la cifra che i contributori italiani verseranno nelle tasche dei datori di lavoro che utilizzeranno la nuova forma contrattuale. Si tratta di un omaggio abbastanza consistente, che avrebbe, tra l’altro, l’effetto di privare l’INPS del ricco gettito contributivo garantito dai precari.
Ma i soldi non ci sono, secondo quanto bisbiglia uno stesso giornalista del Corriere della Sera, che si chiede come mai i decreti delegati del Jobs Act non siano ancora arrivati.
La Ragioneria di Stato nicchia: basteranno 2 miliardi (che forse non ci sono) per coprire tutte le eventuali richieste di assumere i precari sotto il nuovo contratto? E siamo sicuri che una volta finiti i contributi in “regalo” agli imprenditori, non si ritorni alle vecchie forme di precariato, prima fra tutte quella dei contratti a termine, che non è stata abolita?
Insomma, quanto costerà – a noi contributori – dare a Renzi la soddisfazione di annunciare che sono state cancellate alcune forme di contratti precari?
E quanto a lungo inciderà, sul mercato del lavoro italiano, il Jobs Act, una volta che saranno finiti i contributi in sostegno degli imprenditori?
Senza dimenticare che è stato previsto anche un contributo in sostegno alle agenzie di collocamento che si dovranno occupare di ricollocare i lavoratori che perdono il posto. Da 950 euro a 2.500 per ogni lavoratore ricollocato. Insomma, anche la disoccupazione potrebbe diventare un business. Addirittura in mano ai sindacati.
Ma chi paga il conto? Ma soprattutto, siamo sicuri che a pagare il conto sia veramente chi si è servito generosamente al ristorante del sussidio di stato (all’imprenditore neghittoso)?
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