Giustizia
Quanto sappiamo essere spietati coi vecchi moribondi in carcere
«Caro giudice, rimandatelo a casa, non ne possiamo più. Di notte si lamenta e ci tocca assisterlo nei suoi più elementari bisogni e al mattino dobbiamo svegliarci presto perché siamo stati assegnati al lavoro esterno». Tempo fa, alcuni detenuti presero carta e penna per scrivere al Tribunale di Sorveglianza, chiedendo che il professor F.Q., già docente di diritto della Navigazione all’Università di Trieste, venisse scarcerato. In cella quel signore fragile di 77 anni, condannato a 7 anni di carcere per una serie di bancarotte, non ci poteva stare. Già da libero era assistito 24 ore su 24 dalla badante, ma i giudici dopo il verdetto ne ordinavano la carcerazione precisando che sarebbe uscito solo «il 3 aprile 2010, se non detenuto per altra causa», all’età di 84 anni. Fu anche quella lettera, un mese dopo l’ingresso in prigione, a convincere i magistrati che al vecchio professore andava concessa la possibilità di vivere con dignità la sua malattia ai domiciliari, e ai suoi compagni di godere almeno di un po’ di sonno ristoratore.
Ma non a tutti va così bene. La Camera Penale di Milano, l’organizzazione degli avvocati penalisti del capoluogo lombardo, ha raccolto alcuni casi, e ne ha dato conto pubblicamente in un comunicato «M.M. è diabetico, vede solo ombre, non può camminare. Avrebbe bisogno di fisioterapia, una dieta adeguata, ha una famiglia che lo assisterebbe eppure non c’è verso di farlo andare a casa, anche se non ha condanne per reati gravi. Poi c’è S.P., condannato a 30 anni per omicidio, ha 83 anni, è malato di cuore, una protesi al ginocchio. In carcere non può fare fisioterapia».
Qualcuno muore tra le sbarre. «V.N., 67 anni, un ergastolo da scontare, torna a casa per avere violato alcune prescrizioni durante la liberazione condizionale. È malato di cuore. Gli viene un infarto, ma il carcere chiama l’ambulanza solo dopo tre ore. Alla fine, dopo un giro di ospedali che non sono in grado di accoglierlo, muore. Sorge il dubbio crudele non lo hanno soccorso perché rompeva le scatole?».
Legge disattesa, decisioni prestampate
Sono vecchi, sono malati, e i pochi metri quadri di carcere si accartocciano sui loro corpi indeboliti fino a diventarne la bara. In Italia, l’Istat ci informa che, a fine dicembre 2014, erano circa 3mila i detenuti dai 60 anni in su, mentre all’Associazione Antigone nel 2015 risultano 631 carcerati ultra 70enni. «La legge – spiega l’avvocato Marina Vaciago – concede la possibilità ai condannati con più di 70 anni di scontare la pena ai domiciliari salvo che si tratti di detenuti di particolare pericolosità. Il giudice, secondo la Cassazione, dovrebbe dar conto dell’esistenza di esigenze cautelari di intensità così elevata da rendere in concreto inadeguata ogni misura. Nella realtà, le cose non vanno così. Spesso i magistrati si limitano a scrivere che il detenuto è monitorato a livello di salute. Sembra che, di fronte alla richiesta di scarcerazione, per negarla usino moduli prestampati da Milano a Reggio Calabria».
Il punto di vista dei magistrati
«La giurisprudenza – afferma un giudice del Tribunale della Sorveglianza – sostiene che il condannato anziano vada liberato quando ha una salute talmente compromessa che tenerlo in prigione significherebbe un aumento dell’afflittività della pena, altrimenti bisogna valutare se in carcere ci sono le strutture per curarti. In caso affermativo, come accade quasi sempre Lombardia, la persona può restare dentro. Dopo una certa età tutti hanno degli acciacchi, non gli si può non far scontare la pena solo perché sono in là con gli anni».
In casi estremi è possibile invocare l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. «Per esempio – suggerisce il magistrato – tenere dentro un malato terminale non ha senso, se sta morendo non puoi proiettare nel tempo l’idea della rieducazione della pena, prevista dalla Costituzione. Poi c’è una norma, di cui spesso gli avvocati si dimenticano, che permette di chiedere la scarcerazione per chi abbia una pena inferiore ai 4 anni e sia inabile, anche parzialmente». Un procuratore generale che si occupa dell’esecuzione della pena, e che ci ha chiesto di non essere citato, è più duro: «La condanna va scontata – dice – e la giustizia non è un ente caritatevole. A Milano mi risulta che gli anziani carcerati siano per lo più appartenenti alla criminalità organizzata». Eppure non tutti sono stati condannati per mafia, diversi di loro sono in carcere per reati comuni.
Violazione di diritti umani
Per l’avvocato Alessia Filippi dell’Associazione Antigone, a cui aderiscono operatori della giustizia, studiosi e cittadini «troppo spesso in questi casi vengono violati i diritti alla dignità e alla salute. La via d’uscita per gli anziani dal carcere non può essere quella di un peggioramento della salute, ma rifarsi alla legge penitenziaria che prevede dei benefici».
Dalla postazione privilegiata di Garante dei diritti dei detenuti del Comune di Milano, Alessandra Naldi evidenzia uno scenario preoccupante: «Confermo la presenza di situazioni limite, soprattutto a Opera e San Vittore, dove sono diversi i detenuti anziani con gravi malattie. In molti casi ci si chiede se persista la necessità del carcere quando vengono meno la funzione rieducativa della pena e il rischio di reiterazione del reato. In ogni caso, molto dipende dalla sensibilità del magistrato nelle situazioni singole».
C’è infine la questione di dove sistemare gli anziani detenuti, vecchi e malati se e quando riescono a lasciarsi la galera alle spalle. «Il territorio – denuncia Naldi – fa fatica ad accogliere persone anche benestanti ma che non hanno più una famiglia o li amici, dopo tanti anni trascorsi in carcere. Così alcuni di loro tornano a delinquere per ritornare dentro, dove hanno più identità che fuori».
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