Giustizia
L’università ha già perso in questa specie di guerra
Per un bel pezzo sarà difficile dire se qualcuno abbia vinto in questa specie di guerra. Il singolo candidato, l’individuo che riesce a spuntarla grazie al Tar, al Consiglio di Stato, dopo anni di isolamento, sacrifici, spese processuali? Non credo. Ma di sicuro vi è chi ha già perduto.
Di chi è la sconfitta più grave in tutto questo che è accaduto?
E cosa è accaduto?
Ne ho parlato una sola volta in pubblico, personalmente e direttamente. L’ho fatto (oltre che in alcuni miei post su facebook) in un testo scritto circa due anni fa proprio su queste pagine. Si intitolava L’università che non vogliamo. Al mio posto, per anni, ne hanno parlato in tanti, forse potrei anche dire in troppi: articoli di giornale, interrogazioni parlamentari, servizi in tv. E per fortuna, aggiungo, dato che, probabilmente, se così non fosse stato, se tutto fosse rimasto nel silenzio, nel chiuso delle aule giudiziarie, forse l’esito non sarebbe stato lo stesso. E comunque il dibattito pubblico che ne è scaturito non ci sarebbe mai stato.
Chi ha perduto dunque? Perché di sconfitta, indubbiamente, si tratta. Mi riferisco alla credibilità di un intero (o quasi) sistema universitario.
Sia bene inteso. Ricorrere ad un giudice esterno all’ambiente universitario, quale può essere una sessione di tribunale di giustizia amministrativa piuttosto che una commissione giudicatrice, non è assolutamente una scelta facile per chi si ritiene ancora parte di una comunità accademica, scientifica, quella buona, quella onestà, quella che non cambia le carte in tavola quando si tratta di regole, criteri di valutazione, punteggi.
Normalmente, infatti, se tutto funzionasse secondo certe precise regole, se non si travalicassero i paletti dei bandi di concorso, la commissione giudicatrice, come è giusto che sia, può anzi deve esprimere un giudizio tecnico , secondo la propria discrezionalità. Ma quando questo giudizio si rivela illogico, irragionevole, irrazionale, fondamentalmente errato e irregolare – come lo hanno definito, in più di una occasione, i giudici – allora quella che teoricamente dovrebbe essere la indipendenza e l’autonomia della commissione non può che essere messa nettamente in discussione. Aggiungo, per il bene stesso del sistema universitario e, appunto, della sua autorevolezza e credibilità.
Qualcuno dirà, si tratta di un caso, figuriamoci. O, magari, di qualche caso isolato, mele marce insomma, in un sistema fondamentalmente sano, pulito.
Bene, lo avrei pensato, forse, fino a qualche giorno fa. Adesso non più.
Due anni fa chiudevo quel testo sopra citato con un appello, anzi, con una specie di speranza: mi auguravo di non essere più solo a lottare per una maggiore legalità e trasparenza nei concorsi universitari e nel reclutamento, citando niente meno che don Milani, per “uscirne insieme”.
Ebbene, quasi per caso, o comunque senza , inizialmente, un progetto o un obiettivo vero in comune, che non fosse una identica voglia e desiderio, quasi una metaforica sete di giustizia, di verità, ho incontrato nel mio cammino alcuni sparuti “compagni di strada”. Che si sono fatti sempre di più, che mi hanno contattato e poi ci hanno contattato, uno dopo l’altro, fino a diventare un bel gruppo. Un, due, tre, otto, trenta. E poi chissà anche cento, o mille.
Hanno subito le stesse ingiustizie (si veda a questo proposito il seguente scioccante filmato), hanno visto perpetrare le stesse incredibili irregolarità. Provengono da settori scientifico-disciplinati dei più diversi, disparati, lontani dal mio ambito. Sono collocati, in pianta più o meno stabile, in atenei anch’essi molto diversi, dal nord al sud. Dimostrano, plasticamente, la ramificazione e la pervasività del fenomeno di irregolarità e di assoluta non limpidità delle procedure selettive nell’università italiana. Tutto ciò nonostante la supervisione del Miur, nonostante l’apparente meccanismo delle commissioni sorteggiate, nonostante l’obbligo dei commissari esterni all’ateneo che bandisce il concorso, nonostante il perfezionamento del meccanismo dell’ASN, nonostante l’Anvur. Nonostante tutto e tutti, si potrebbe dire.
Ho incontrato Giulia, Giuliano, Filippo, Pierluigi, Pierpaolo, Antonella, Cecilia, Adamo Domenico, Andrea, Anna Maria e tutti gli altri, casualmente, dopo aver fatto un primo appello insieme a Nicola Morra, sulla scalinata sotto una chiesa barocca di Noto, e poi un secondo, sempre accanto a lui, davanti all’ex carcere di Modica Alta, in cui mi rivolgevo a chiunque avesse vissuto situazioni di irregolarità nei concorsi, invitandolo a denunciare i fatti e a contattarmi.
Così ci siamo visti a Roma, in uno studio legale in Trastevere, ironia della sorte proprio davanti al Miur, lo stesso giorno in cui si tenevano gli stati generali alla presenza della ministra Fedeli, del premier Gentiloni, e di tanti altri membri del gotha universitario accademico. Ma l’interesse dei media era, incredibilmente, tutto per noi, seguiti con attenzione dalle telecamere di “Repubblica Tv” e dai giornalisti del “Fatto quotidiano”.
È nata così la nostra associazione. Si chiama “Trame”, un acronimo volutamente ironico, che sta a significare “Trasparenza e merito. L’Università che vogliamo”, ribaltando proprio il titolo di quell’articolo di cui vi parlavo all’inizio.
Ci facciamo forza a vicenda, nelle nostre rispettive e difficili battaglie contro le commissioni che hanno commesso abusi e irregolarità, ma anche contro gli atenei che le hanno prima avallate e poi sostenute , con un disdicevole e insormontabile muro di gomma protrattosi negli anni. Ma, soprattutto, mettiamo a disposizione di chiunque creda in una Università migliore, uno strumento di appoggio, di confronto, di analisi, di consulenza, nel tortuoso percorso di accesso agli atti, ricorso, ed eventualmente anche di esposto-denuncia. Abbiamo un sito: www.trasparenzaemerito.org ; una pagina facebook: https://www.facebook.com/www.trasparenzaemerito.org ; un profilo twitter: https://mobile.twitter.com/TrasparenMerito?p=s ; un indirizzo e-mail: trasparenzaemerito@gmail.com. Abbiamo lanciato una raccolta di firme per una lettera da consegnare, alla fine dell’anno, al Presidente della Repubblica.
Spero, davvero, che tutto questo possa servire non solo a noi ma anche ad altri. E che non sia come, invece, mi ha confessato di recente una autorevole e stimata docente, nonché importante intellettuale dei nostri giorni, ovvero che tutto ciò non serva poi a molto perché il nostro è un paese – e la sua università non lo è da meno – troppo corrotto nell’anima. Lei ha poi aggiunto che, fuori dalla disillusione, anche quel poco che si fa in opposizione al sistema, in fin dei conti, può servire a tanto. Speriamo proprio di sì. Io, almeno, ancora credo che qualcosa di buono la si possa, in concreto, fare. Non a parole, come ha dimostrato in questi difficili anni, ognuno di noi. Ma con i fatti, cioè con i ricorsi, con le denunce e con le sentenze. Affinché l’università italiana possa tornare ad essere guidata e composta solo da chi le regole le rispetta e le fa rispettare. E possa così tornare ad essere quel fiore all’occhiello, quel vanto, agli occhi dell’intera umanità, che è sempre stata fin dai tempi in cui, proprio in Italia, ha avuto origine.
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