Giustizia
Tutti i nostri gesti privati sono leciti?
Una giudicessa, un piede (della medesima), un avvocato-velista pugliese dai boccoli biondi, praticamente un Thor dalle cime di rapa, la sua inclinazione carneval-feticista, l’indagine su una vicenda che ha provocato molto dolore. Shakerate bene e otterrete il pieno di una polemica di questi giorni, con un degno finale in cui il pm lascia l’inchiesta per questioni di opportunità.
Sarebbero stati elementi buoni e giusti per una lieve e consapevole considerazione sullo stile da parte di Donna Letizia, al secolo Colette Rosselli, che fu moglie del grande Indro, e invece ci dovremo accontentare – è appena il caso di dirlo – dei grigissimi burocrati del Csm. La questione, per come è stata raccontata, non ha nulla a che vedere con il penale. Ognuno ciuccia ciò che si sente, dal basso verso l’alt(r)o o viceversa. E chi parla di reati straparla sapendo di straparlare. Semmai, la storiella investe la sfera dell’opportunità che è il grande tema di questi anni.
A noi piace partire da un punto preciso. Dai gesti privati. Per chiedere: tutti i nostri gesti privati sono leciti, essendo protetti dalla sacra Carta? Su ciò che facciamo nella nostra privatezza, nessuno avrebbe titolo per mettere bocca. Cerchiamo però di capire meglio che cosa vuol dire gesto privato. Il gesto privato è quello che si chiude invariabilmente con noi stessi, che non ammette condivisione, neppure dei parenti stretti, neppure nella felice idea di mostrarsi agli altri per come siamo o per quello che facciamo. Il gesto è privato perché è solo. In due o più persone ovviamente non è più privato, perché corre il rischio di un possibile “tradimento”, è un segreto che non lo è più. Anche l’idea di lasciare una traccia di noi stessi, filmandoci, abbatte il sacro principio della privatezza. Seppur inanimati, una cinepresa, un telefonino, un qualsiasi riproduttore di immagini potranno cadere in mani sbagliate. E produrre un guaio.
Un signore sui social dice: potrò o no scaccolarmi in pace a casa mia senza che la mia onorabilità debba essere messa in discussione da chicchessia? Ecco il punto. Se il gesto è privato, quindi solitario, padronissimo. Ma se il medesimo signore crede di voler imporre la “pratica” anche in un circuito più largo, che sia parentale o amicale, qui le cose si complicano. Mettiamo che lo scaccolatore sia un riconosciuto pizzaiolo. Mettiamo che nel bel mezzo di una festa un amico gli scatti qualche immagine un po’ corsara nell’atto di, foto apparentemente innocue e molto goliardiche. Mettiamo che per un caso del destino si rompa l’amicizia tra i due e che l’amico, per un senso di vendetta, posti allegramente quelle foto di molto tempo prima su una bacheca social. Se io, cliente di quella pizzeria, dovessi per un caso vederle, avrei probabilmente molte difficoltà a rimangiare la pizza da lui. Ecco che da un gesto apparentemente innocuo, si produce un danno quasi irreparabile.
È il grande tema dell’opportunità, si diceva. Vengono in mente le vite molto esposte, che richiedono comportamenti conseguenti. Penso, per esempio, a Travaglio e al suo modo di concepire il giornalismo, in cui etica e morale costituiscono il cuore del mestiere. Credo che Travaglio si sia interrogato da tempo su che vita (privata) fare. Una caduta di stile, una diseleganza, una scorrettezza, o cose anche peggiori, farebbero la felicità di tutti quelli che lo odiano. Accadde una volta che Peppe D’Avanzo ne facesse un paginone su Repubblica con l’accusa molto sgradevole di non avere pagato una vecchia vacanza insieme al giudice Inrgoia. Sapendo dell’attenzione di D’Avanzo e soprattutto della sua credibilità nel nostro mondo, la cosa fece scalpore (fece scalpore anche il fatto che si regolassero dei conti tra giornalisti, ma questa è un’altra storia). Poteva essere la fine di Travaglio, ma non la fu. Da un cassetto, trasse copia dell’assegno con cui aveva pagato regolarmente quell’albergo. E la questione si sopì. Ma Travaglio è un caso limite. In realtà, non sono solo i fustigatori della morale a dover considerare anche i comportamenti privati. Tutti noi che in qualche modo facciamo un mestiere pubblico, rispondiamo all’esterno dei nostri atti, soprattutto se all’esterno ci sentiamo liberi di fare qualche libera riflessione su fatti che ci scorrono sotto gli occhi, sulla politica, sulla società, sulle persone. Sarebbe spiacevole essere accusati di tenere un doppio binario, per cui virtuosi e illibati nella pubblica considerazione, e poi trafficoni e disonesti nelle cose più private.
Quando si dice: “ma cosa ha fatto di male quel pm?” si commette un’ingenuità di fondo. Non ha fatto nulla di male, c’era una festa, allegria condivisa, amici, un bicchiere di vino, un’atmosfera molto, molto, lontana dall’aula di un tribunale. Ma ridurre sempre tutto alle categorie del Male e del Bene, porta con sè il rischio di considerare le questioni solo nelle sue parti più estreme e spigolose, eliminando così le sfumature che sono invece la parte più succosa e delicata per valutare i comportamenti. Non ci vuole il genio della lampada per capire che un magistrato deve avere una certa attenzione nelle situazioni, mantenendo sobrietà e decoro come forma primaria di difesa personale (e collettiva). Ovvio che bisogna modificare i propri stili di vita se si fanno certi mestieri, altrimenti perché desterebbero ancora scandalo i pretini che sgavazzano allegramente?
Farsi ciucciare allegramente un piede da un avvocato amico nel corso di una festa sarà anche molto divertente, ma è una leggerezza. L’importante, però, è averne consapevolezza. Su questo, non è ammessa l’ignoranza del giudice.
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