Giustizia

Toghe rotte, il mito della magistratura indipendente

6 Giugno 2019

L’inchiesta che vede l’ex presidente dell’ANM Luca Palamara indagato per corruzione rivela le lotte intestine all’interno della magistratura e la guerra per il controllo politico di uno snodo strategico del potere in Italia, la Procura di Roma. La nuova fase politica sta turbando gli equilibri creatisi dopo il ’92 e rende sempre più palpabile l’illusorietà dell’indipendenza dei giudici.

L’inchiesta che coinvolge tra gli altri Luca Palamara, ex membro del CSM ed ex presidente dell’ANM, nonché leader della corrente di centro della magistratura, potrebbe essere l’occasione per fare una riflessione sul ruolo dei giudici nella nostra società e sulla vexata quaestio dei rapporti tra magistratura e politica. Palamara, attualmente pm a Roma, è accusato di avere fornito la propria collaborazione (in cambio di denaro) a Fabrizio Centofanti per pilotare nomine e sentenze in alcuni procedimenti giudiziari a carico di magistrati. Centofanti, lobbista ed ex capo delle relazioni istituzionali di Francesco Bellavista Caltagirone, considerato vicino al PD (è accusato dalla Procura di Roma di aver fatto ‘erogazioni per favorire l’attività politica di Nicola Zingaretti’, Espresso190319), è stato arrestato nel 2018 per frode fiscale.

Il Cencelli della magistratura

Per capire il quadro in cui si svolge questa vicenda è utile comprendere come si amministra la magistratura secondo le regole dell’ordinamento italiano. I giudici hanno un organo di autogoverno, il Consiglio Superiore della magistratura (CSM) e un sindacato, l’Associazione Nazionale Magistrati (ANM). Il CSM è formato da 27 membri: oltre al Presidente della Repubblica (formalmente a capo dell’organo) e a due alte cariche della Cassazione, gli altri 24 (16 giudici e 8 ‘laici’) sono eletti rispettivamente dai giudici e dalle camere in seduta congiunta. I membri laici sono eletti tra i docenti universitari in materie giuridiche e gli avvocati con almeno 15 anni di carriera. Tra questi viene scelto il vicepresidente, che è la vera guida del CSM, dal momento che la carica di presidente del CSM spettante al capo dello Stato è in larga misura onorifica.

Tra i giudici il superamento di destra e sinistra non c’è ancora stato, anzi la suddivisione dei magistrati in correnti segue ancora la tradizionale tripartizione ereditata dalla Prima Repubblica in correnti di destra (Magistratura Indipendente), centro (Unità per la Costituzione, abbreviato in Unicost, l’area di Palamara) e sinistra (Area, nata dalla confluenza di Magistratura Democratica e Movimento Giustizia). A queste tre nel 2015 si è aggiunta Autonomia e Indipendenza, la corrente di Piercamillo Davigo, fuoruscito da MI e che alcuni considerano vicino al M5S. Le elezioni della componente togata, di quella laica e del vicepresidente del CSM si sono svolte tra luglio e settembre del 2018, poco dopo le elezioni politiche, una scelta inusuale per le rigide liturgie della magistratura. Il voto ha determinato l’attribuzione di 5 posti ciascuna a MI e a Unicost, mentre Area (da 7 a 4 eletti) e Davigo (2 eletti) sono stati i grandi sconfitti. Per quanto riguarda i membri laici invece 3 degli eletti sono cinque stelle, 2 della Lega, 2 di Forza Italia e uno del PD. Veniamo all’ANM, che ha rinnovato i propri vertici ad aprile. Qui in base al manuale Cencelli della magistratura a MI è stata assegnata la presidenza, a Unicost la carica di segretario, mentre ad Area è andata la vicepresidenza. La composizione numerica della giunta dell’Associazione quindi vede Unicost con 4 membri, seguita da Area (3) e MI (2).

Il voto dei giudici dunque ha visto realizzarsi un netto predominio del centro e della destra. Tuttavia a settembre il CSM ha eletto come vicepresidente l’unico membro del PD al suo interno, David Ermini, avvocato, nato a Figline Valdarno, definito dal Sole24Ore270918 il ‘renzianissimo nuovo vicepresidente del CSM’ ed eletto, in modo inusuale, solo alla terza sessione di voto battendo il candidato dei cinque stelle per 13 voti a 11. In realtà l’elezione di Ermini non è così inspiegabile, visto che l’ex segretario di MI, Cosimo Ferri, sottosegretario alla Giustizia nel governo Letta in quota Forza Italia, confermato poi da Renzi e Gentiloni, dal 4 marzo scorso è diventato parlamentare del PD.

La supplenza politica dei giudici

Nella storia della Repubblica la magistratura, nei momenti di maggiore crisi del potere esecutivo e legislativo, ha svolto spesso un ruolo di supplenza politica, in un rapporto talora più conflittuale che dialettico coi partiti e col salotto buono della capitalismo italiano. ‘Mani pulite’ è l’esempio più emblematico di questa tradizione. Partita in modo un po’ casuale, con la famosa tangente del Pio Ospedale Trivulzio e l’arresto del manager socialista Mario Chiesa, l’inchiesta del pool di Milano finì per scoperchiare ciò che in realtà tutti fingevano di ignorare e cioè che il sistema dei partiti, oltre che sui finanziamenti esteri provenienti da Washington e da Mosca, si basava su un patto non scritto con le imprese italiane: appalti in cambio di tangenti destinate al mantenimento dei grandi partiti di massa e a sostenere la loro missione, cioè preservare la pace sociale necessaria a un paese collocato in una posizione strategica lungo la cortina di ferro.

Quel sistema di finanziamento si era istituzionalizzato a tal punto che a Milano il tesoriere della DC si incaricava di raccogliere le tangenti dalle imprese e di spartirle, consegnando la loro parte ai responsabili finanziari del PSI e del PCI. Dopo una prima fase di solidarietà tra politica e imprese a difesa di un ingranaggio vitale per entrambe, ci fu la famosa riunione degli industriali in cui Gianni Agnelli, pur essendo la FIAT pesantemente coinvolta, affermò che bisognava collaborare coi giudici. Tra gli industriali si era fatta strada l’idea che ‘Mani pulite’ avrebbe potuto essere l’occasione giusta per liberarsi dal fardello del mantenimento di un apparato politico elefantiaco, diventato anacronistico dopo la fine della Guerra Fredda. L’URSS non c’era più, il Muro di Berlino era caduto e lo spauracchio dei cosacchi che abbeverano i propri cavalli a San Pietro ormai non faceva più paura a nessuno. Per quale ragione le imprese italiane avrebbero dovuto continuare a pagare quell’esoso salasso per mantenere stuoli di funzionari, portaborse e faccendieri?

Il pool di Milano dunque, un po’ per caso e un po’ per scelta (non sua), si trovò a fare la parte del traghettatore dalla Prima alla Seconda Repubblica e quel contributo valse alla magistratura un riconoscimento politico in termini di proiezione dei giudici ai massimi livelli del potere esecutivo e legislativo. Ventisei anni dopo l’arresto di Mario Chiesa le elezioni  politiche del marzo 2018 sembrano aver sigillato la fine di quel ciclo.Paradossalmente, proprio mentre il giustizialismo trionfava nelle urne (o forse proprio per questo) la magistratura vedeva ridursi al lumicino la presenza di propri esponenti in Parlamento. Come osservava poco dopo le elezioni politiche il Sole24Ore100318 nell’arco di tre legislature la presenza di giudici tra gli eletti si è ridotta prima di metà e poi a un sesto. Oggi in Parlamento siedono solo tre ex magistrati (Piero Grasso di LeU, il citato Ferri e Giusi Bartolozzi, eletta nelle liste di FI), contro i 9 della legislatura precedente e i 18 di quella prima ancora.

La crisi non risparmia le toghe

L’attuale declino delle correnti di sinistra di una magistratura a sua volta in declino riflette la crisi di una sinistra, sia ‘moderata’ che ‘radicale’, che per 25 anni ha celebrato i giudici come argine all’avanzata del berlusconismo antidemocratico e fascistoide, mentre in Parlamento cercava accordi col centrodestra sulle riforme istituzionali come sulla politica economica. Fu un ex magistrato, Luciano Violante, a sdoganare i ‘ragazzi Salò’. Era il 1996 e Violante si insediava alla presidenza della Camera quale rappresentante della maggioranza di centrosinistra che avrebbe dato vita al primo governo Prodi (con gli ex giudici Antonio Di Pietro e Giuseppe Ayala ministri), mentre sui banchi dell’opposizione sedeva il centrodestra nato dalla confluenza di Forza Italia con gli ex missini di AN e la Lega di Umberto Bossi. Del resto anche a sinistra del PD il mito della ‘via giudiziaria al socialismo’ ha continuato a mietere successi e i tribunali hanno fornito una lunga lista di aspiranti leader della malconcia sinistra italiana: da Grasso a Pisapia, da Ingroia a De Magistris, il che spiega anche il successivo travaso di voti dall’elettorato di sinistra ai cinque stelle.

Il nuovo corso politico inaugurato nel 2011, con la fine dell’era berlusconiana, ha visto la magistratura perdere posizioni, il conflitto tra giudici e politica accentuarsi, ma contemporaneamente anche l’emergere di una conflittualità interna al sistema giudiziario. Se per tutta l’era berlusconiana a dominare è stato lo scontro tra i giudici e il centrodestra, dopo il 2011 esso si è allargato al PD renziano, ferito dalla inchieste sulle banche e sullo scandalo Consip, al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, sfiorato dalle indagini sulla trattativa Stato-mafia, e di recente ha coinvolto anche la più pura incarnazione politica del giustizialismo, il M5S. Parallelamente tra i giudici hanno cominciato ad aprirsi crepe che riproducono le stesse linee di frattura presenti tra gli schieramenti politici. Sull’immigrazione, ad esempio, da una parte ci sono state le indagini su Salvini per il caso Diciotti, dall’altra quelle su Mimmo Lucano e sulle ONG. Tutto questo – direbbe qualcuno – conferma che la magistratura non guarda in faccia a nessuno e se non fosse per l’evidente commistione tra politica e magistratura che anche la cronaca conferma potremmo pure credergli.

Piazzale Clodio, snodo strategico

In questa fase di crisi e di ricerca di nuovi equilibri tra i poteri dello Stato la Procura della Repubblica di Roma rappresenta, più che in passato, uno snodo strategico del potere giudiziario e delle sue relazioni con la politica e l’economia. Piazzale Clodio, sotto la gestione di Giuseppe Pignatone e di magistrati storici come il procuratore aggiunto Claudio Ielo, in questi anni ha condotto con piglio da protagonista alcune indagini delicatissime per i loro risvolti politici interni e internazionali, da Mafia Capitale al caso Regeni, dagli scontrini di Ignazio Marino alle indagini sui collaboratori di Virginia Raggi e sullo stadio della Roma fino al recente processo Cucchi. Secondo i magistrati che indagano su Palamara Cosimo Ferri e il braccio destro di Renzi Luca Lotti avrebbero incontrato lo stesso Palamara, un altro magistrato a lui vicino e due consiglieri del CSM di Magistratura Indipendente per discutere della successione a Giuseppe Pignatone, in pensione dai primi di maggio, e di come imprimere una discontinuità rispetto alla sua gestione. Che una parte dello schieramento politico, particolarmente colpita dai giudici in questi anni, veda nel pensionamento di Pignatone un’occasione per tutelare i propri interessi, almeno nella Capitale, non stupisce. Meno usuale invece è che questo tentativo trovi sponda in un magistrato di spicco come Palamara e nei vertici di due storiche correnti della magistratura come MI e Unicost. D’altra parte è la conferma che la crisi che attanaglia l’Italia è sistemica e dunque non risparmia alcuna delle istituzioni dello Stato. E che il principio dell’indipendenza della magistratura trova analogo riscontro nella realtà di quello per cui ‘la legge è uguale per tutti’. Non è una ‘questione morale’, bensì un problema che attiene alla struttura e alla natura dello Stato.

L’articolo è tratto dalla newsletter di PuntoCritico.info del 4 giugno.

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