Giustizia
Stragi del ’92, Caltanissetta riapre le indagini sul dossier “mafia-appalti”
L’importanza del dossier e il forte interesse sia di Falcone, che chiese al Ros la sua realizzazione, sia di Borsellino è stata negata per trent’anni anche grazie alle fluide dichiarazioni degli stessi magistrati che, a suo tempo, chiesero e ottennero la sua archiviazione.
Uno squarcio inatteso tra le nubi che fa filtrare il primo raggio di sole
E così, in un tardo pomeriggio di un caldo giorno di luglio, all’improvviso, arriva una di quelle notizie che non speravi potessero arrivare. Sotto la guida del Procuratore capo Salvatore De Luca, come rivela l’Adnkronos, un pool di magistrati ha riaperto le indagini relative al dossier “mafia-appalti” archiviato il 14 agosto 1992. Negli scorsi mesi sono state sentite diverse persone e, tra queste, il colonnello Giuseppe De Donno che, al tempo con il grado di capitano, condusse l’inchiesta che portò alla realizzazione del dossier con il suo diretto superiore al Ros, l’allora colonnello Mario Mori. Un fulmine a ciel sereno, quindi. In parte sì ma ritengo che sia più definibile come “uno squarcio inatteso tra le nubi che fa filtrare il primo raggio di sole”.
L’importanza del dossier e il forte interesse sia di Falcone, che chiese al Ros la sua realizzazione, sia di Borsellino è stata negata per trent’anni anche grazie alle fluide dichiarazioni degli stessi magistrati che, a suo tempo, chiesero e ottennero la sua archiviazione. Mio nonno diceva che “il tempo è galantuomo” e, forse, in quest’occasione è proprio vero. L’assurdità della situazione è che non si è mai trattato di un dossier scomparso, di una lacuna investigativa o di una dimenticanza. Si è trattato di una calcolata e dolosamente voluta sottovalutazione che ha generato un’operazione di copertura della verità?
Cos’è il dossier “mafia-appalti”?
Il 20 febbraio 1991, i carabinieri del Ros depositarono alla procura di Palermo l’informativa mafia e appalti relativa alla prima parte delle indagini. L’invio del dossier seguì l’informativa del 2 luglio 1990 e quella del 5 agosto 1990, a firma dell’allora capitano Giuseppe De Donno, con oggetto “Annotazione relativa alle indagini di polizia giudiziaria esperite in merito ad una associazione di tipo mafioso tendente al controllo e/gestione di attività economiche concessioni appalti e servizi pubblici” indirizzate al dottor Giovanni Falcone e al dottor Guido lo Forte. Il dossier passò per le mani prima dell’allora capo della procura di Palermo, Pietro Giammanco, e poi dei sostituti Guido Lo Forte, Giuseppe Pignatone e Roberto Scarpinato. Il 9 luglio 1991 la procura chiese cinque provvedimenti di custodia cautelare e, ai legali dei cinque arrestati, fu stranamente consegnata l’intera informativa del Ros, anziché gli stralci relativi alle posizioni dei diretti interessati, con il risultato che tutti i contenuti dell’indagine vennero resi pubblici, vanificando il lavoro degli investigatori. La vicenda provocò una frattura insanabile tra il Ros e la procura di Palermo e diverse polemiche sui giornali, che parlarono addirittura di “insabbiamento” della parte d’indagine che chiamava in causa esponenti politici.
Il dossier “mafia-appalti” determinante dell’accelerazione della strage di via d’Amelio
Che il dossier “mafia-appalti” fosse elemento determinante dell’accelerazione della morte di Paolo Borsellino è scritto, nero su bianco, nella sentenza del “Borsellino Quater” in cui si nota che, relativamente alle concause che hanno portato alla decisione di realizzare la strage di via d’Amelio appena 57 giorni dopo quella di Capaci, si ritiene che «in particolare, i timori di Cosa Nostra risultavano fondati su due motivi, correlati, da un lato, alla possibilità che il giudice Borsellino venisse ad assumere la posizione di Capo della Direzione Nazionale Antimafia e, dall’altro, alla pericolosità delle indagini che il medesimo avrebbe potuto svolgere in materia di appalti, e sul rapporto mafia-appalti». E ancora «I Giudici di prime cure – premettendo di volere evitare, soprattutto in ordine al primo dei sopra richiamati punti, “ogni rivalutazione di vicende che formano oggetto di altri procedimenti attualmente pendenti davanti ad altre autorità giudiziarie”, con specifico riferimento evidentemente ad altro procedimento pendente dinanzi l’Autorità giudiziaria di Palermo sulla cd. “Trattativa Stato-mafia”-, richiamavano innanzitutto, le conclusioni espresse nella sentenza n. 24/2006 della Corte di Assise di Appello di Catania secondo cui era possibile ipotizzare, “senza peraltro pervenire ad alcun riscontro certo”, che sull’accelerazione dell’uccisione del giudice Paolo Borsellino (della quale avevano parlato i collaboratori di giustizia facendo riferimento ad una frenesia di Riina che aveva parlato di “impegni presi da fare subito”) poteva avere influito “l’intervento di potentati economici disturbati nella spartizione degli appalti, la presenza di forze politiche interessate alla destabilizzazione, la necessità di umiliare lo Stato in modo definitivo e plateale. (…) Paolo Borsellino, inoltre, aveva mostrato particolare attenzione, dopo la morte del collega ed amico Giovanni Falcone, per le inchieste riguardanti il coinvolgimento di “Cosa Nostra” nel settore degli appalti pubblici, avendo intuito l’interesse strategico che tale settore rivestiva per l’organizzazione criminale. Come dichiarato, nell’ambito del procedimento Borsellino ter, dai testi col. Mario Mori e cap. Giuseppe De Donno, il magistrato aveva loro proposto – nel corso di un incontro dedicato che aveva avuto luogo il 25 giugno 1992 presso la caserma dei Carabinieri Carini di Palermo – la costituzione, presso il R.O.S. dei Carabinieri, di un gruppo coordinato dal De Donno che avrebbe dovuto sviluppare le indagini in tema di mafia e appalti. Il capitano De Donno, peraltro, risultava avere condotto le indagini che avevano portato alla stesura di un rapporto su mafia e appalti, consegnato al giudice Falcone nel febbraio 1991, poco prima della sua partenza per Roma».
L’interesse di Borsellino per il dossier
Come se ciò non bastasse gli stessi colleghi di Borsellino, non tutti ma per quelle che possiamo identificare oggi come ovvie ragioni, nel corso delle audizioni al Csm realizzate alla fine del mese di luglio 1992, recentemente rese pubbliche, dichiararono di essere a conoscenza del forte interesse di Borsellino su quel dossier e ci raccontano quanto successe nell’ormai famosa riunione del 14 luglio 1992. Lo fa nella sua audizione il dottor Patronaggio che racconta quanto accadde nella sopracitata riunione e della rabbia di Paolo Borsellino che chiedeva notizie del dossier “mafia-appalti”: «Borsellino ha detto che i Carabinieri si aspettavano molto di più da questo rapporto. In assemblea lo disse espressamente che i carabinieri si aspettavano da questa informativa dei risultati giudiziari di maggiore respiro (…) non solo nei confronti dei politici, anche nei confronti degli imprenditori, perché lì il nodo era valutare a fondo la posizione degli imprenditori e su questo punto peraltro il collega Lo Forte si dilungò spiegando il delicato meccanismo e la delicata posizione dell’imprenditore in questo contesto, queste furono le spiegazioni date, chieste e date, ecco» e ancora, sempre Patronaggio nella sua audizione «Borsellino chiese spiegazioni su un procedimento riguardante Angelo Siino e altri (…) capisco che qualcosa non va evidentemente perché mi sembra insolito che si discuta così coralmente con dei colleghi assegnatari dei processi». E ancora «Paolo Borsellino chiese spiegazioni su questo processo contro Siino perché lui aveva percepito che vi erano delle lamentele da parte dei carabinieri verosimilmente e chiese delle spiegazioni che non erano tanto di carattere tecnico, cioè se era stata fatta o meno una cosa, ma più che altro era il contorno generale del procedimento. Chi c’era o chi non c’era, perché poi, in buona sostanza, la relazione sul processo Siino fu fatta unicamente, esclusivamente per dire che non vi erano nomi di politici rilevanti all’interno del processo o che se vi erano nomi di politici rilevanti all’interno del processo di un certo peso entravano soltanto per un mero accidente che comunque, insomma, ecco, allora la spiegazione di Borsellino fu che chiese spiegazione, fu di carattere estremamente generale, chi erano i politici, ma perché. Insomma, cose di questo genere, non erano singoli fatti, atti istruttori» oppure il dottor Gozzo che dichiara «Ho visto proprio questo contrasto più che latente, visibile, perché proprio Borsellino chiese e ottenne che fosse rinviata, perché al momento aveva dei problemi, la discussione su questo processo e fece degli appunti molto precisi: come mai non fossero inserite all’interno del processo determinate carte che erano state mandate». Nella riunione, nel cui ordine del giorno il dossier “mafia-appalti” risultava essere il primo punto di discussione, il sostituto procuratore della Repubblica Guido Lo Forte fu chiamato a relazionare sull’indagine, ma dalle testimonianze dei presenti risulta che la parola “archiviazione” non venne mai pronunciata e da ciò si evince che il dottor Borsellino non fu informato che il giorno prima, il 13 luglio 1992, sei giorni prima della strage di via d’Amelio, fu presentata dai sostituti procuratori della Repubblica Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato, con il visto del Procuratore della Repubblica Pietro Giammanco, un’argomentata richiesta di archiviazione, archiviazione che sarà presentata il 22 luglio 1992, tre giorni dopo la strage di via d’Amelio, e posta in essere, con la restituzione degli atti, il 14 agosto 1992.
Lo stesso interesse di Borsellino è verbalizzato nell’audizione del 16 febbraio 2011 che la Commissione Parlamentare Antimafia, con presidente Giuseppe Pisanu, fece alla dottoressa Liliana Ferraro nella quale dichiarò che «ritornati nella saletta, il dottor Borsellino mi fece altre domande sulle attività di Giovanni nell’ultimo periodo e volle che gli raccontassi ciò che sapevo sulla cosiddetta indagine sugli appalti. Era un rapporto contenente spunti di attività investigativa in relazione a una rete di appalti in Sicilia che aveva diramazioni con grandi aziende anche sul continente e che, a giudizio del Ros che l’aveva redatto, se adeguatamente sviluppata avrebbe potuto portare all’accertamento delle attività economiche svolte da cosa nostra in Sicilia e nel resto del Paese. Questo rapporto era arrivato al ministro Martelli in plico sigillato inviato dal procuratore della Repubblica di Palermo. Il Ministro, come era sua abitudine per le questioni che riguardavano le attività degli uffici giudiziari in materia penale, lo aveva inviato immediatamente al dottor Falcone il quale era appena partito per Palermo per il fine settimana. Io lo avvertii dell’arrivo del plico ed egli mi pregò di cominciare a leggerlo per capire quale provvedimento la procura della Repubblica di Palermo stesse chiedendo al Ministero. Poco tempo dopo – non più di due ore – il dottor Falcone mi richiamò e mi disse di risigillare immediatamente i faldoni pervenuti da Palermo e di predisporre una bozza di lettera a firma del Ministro per accompagnare la restituzione degli atti alla procura. Così facemmo».
L’interesse di Falcone per il dossier
Nella sua audizione del 22 giugno 1990 alla Commissione parlamentare antimafia Giovanni Falcone disse che c’era una «centrale unica degli appalti» ovvero «un vertice che dirige e coordina le assegnazioni e le esecuzioni, cioè tutta la materia (relativa agli appalti, ndr)». Nell’audizione il magistrato parlò dell’omicidio Mattarella e degli altri delitti eccellenti ma raccontò anche dei capitali che Vito Ciancimino aveva investito in Canada, dei suoi prestanome e della faticosa ricostruzioni delle transazioni finanziarie per risalire agli effettivi proprietari. Dichiarò inoltre che «Qualsiasi impresa, italiana o anche straniera, che operi in queste zone è sicuramente soggetta agli stessi problemi: questo è sicuro (…) si annidano le possibilità di un pesante condizionamento soprattutto in sede locale. Se così è, chiaramente tutto questo riguarda qualsiasi imprenditore che operi in determinate zona, sia esso persona fisica, che cooperativa o ente a partecipazione statale (…) C’è un vertice mafioso isolano che controlla la regolazione dei pubblici appalti; tutto il resto è estremamente articolato e complesso e in corso di accertamento, quindi verrà fuori un po’ alla volta. Alcune opere vengono aggiudicate altrove. Il problema sarà ampiamente chiarito, ma non posso farlo completamente in questo momento perché non credo sia opportuno. Ma il punto è sempre lo stesso: il presupposto dell’intervento dell’organizzazione mafiosa sta nel controllo del territorio».
Lima, Guazzelli, Falcone e Borsellino: la scia di sangue lasciata dal dossier “mafia-appalti”
Falcone e Borsellino avevano capito che l’omicidio di Salvo Lima era scaturito dal suo rifiuto di intervenire presso la Procura di Palermo, in merito al procedimento nato dal dossier “mafia- appalti. Non solo. Sempre Falcone e Borsellino avevano capito che anche l’omicidio di Giuliano Guazzelli, maresciallo dei Carabinieri alla guida del nucleo di polizia giudiziaria al tribunale di Agrigento ucciso il 4 aprile 1992, poco meno di un mese rispetto a Lima, era da ascriversi ala dossier “mafia-appalti”. Il figlio del maresciallo Guazzelli, Riccardo, nel 2014, nel corso della sua testimonianza al processo “Bagarella e altri” di fronte al pm Vittorio Teresi, ebbe a dichiarare «Mio padre collaborava con il Ros. Era una collaborazione informale. Ma non era aggregato. Era alla sezione del Pg. Aveva collaborato per l’inchiesta mafia e appalti». Lo conferma Vittorio Teresi che il 7 dicembre 1992 fu sentito dal pubblico ministero Fausto Cardella della procura di Caltanissetta. In quell’occasione ebbe a dichiarare che, secondo quanto riferitogli di Paolo Borsellino «il maresciallo Guazzelli sarebbe stato il referente dei Ros e in particolare del generale Subranni nella provincia di Agrigento. Per questa sua qualità il maresciallo sarebbe stato un giorno avvicinato da Siino Angelo e da Cascio Rosario, nei confronti dei quali il Ros stava sviluppando un’indagine, al fine di indurlo ad attenuare la loro posizione nell’inchiesta (si riferisce al dossier “mafia-appalti”, ndr). Il maresciallo Guazzelli non solo avrebbe rifiutato di interporre suoi buoni uffici presso il Ros, ma addirittura avrebbe trattato in così malo modo il Siino e il Cascio, che il primo, uscito dalla casa del Guazzelli, si sarebbe sentito male (…) andato a vuoto questo primo tentativo, il Siino si sarebbe rivolto all’onorevole Lima affinché questi intervenisse sul Procuratore Giammanco tramite l’onorevole D’Acquisto al medesimo fine»» e che «Borsellino però aggiunse di aver commentato queste notizie con Giovanni Falcone e che anche lui riteneva possibile che potessero avere una rilevanza, non solo ai fini della spiegazione dell’omicidio Guazzelli ma anche di quello dell’onorevole Lima».
Il dossier “mafia-appalti” possibile concausa anche della strage di Capaci
Nella sentenza della Corte d’Assise di Caltanissetta del procedimento “Capaci” si legge che «in Cosa Nostra, e, in particolare, da parte di Pino Lipari e Antonino Buscemi, era cresciuta la consapevolezza che il dr Falcone avesse compreso la rilevanza strategica del settore appalti e che intendesse approfondirne gli aspetti: “questo sa tutte cose, questo ci vuole consumare” (pag. 74, ud. del 17 novembre 1999). In maniera del tutto pertinente al tema, Siino ha rievocato l’esternazione pubblica del dr Falcone, avente ad oggetto il fatto che la mafia era entrata in Borsa; dichiarazione che aveva mandato su tutte le furie Antonino Buscemi, il quale, sentendo quelle parole, gli aveva manifestato la convinzione che il magistrato avesse compreso che dietro la quotazione in Borsa del gruppo Ferruzzi “c’era effettivamente Cosa Nostra” e che tra quest’ultima e una frangia del partito Socialista, riconduci bile all’on. Claudio Martelli, era intercorso un accordo elettorale. Peraltro, anche Giuseppe Madonia aveva manifestato il convincimento che il dr Falcone aveva compreso i legami tra mafia, politica e settori imprenditoriali. Siino, con riferimento all’eliminazione del dr Borsellino, ha inoltre aggiunto che Salvatore Montalto, durante la comune detenzione nel carcere di Termini Imerese, facendo riferimento agli appalti, gli aveva detto: “ma a chistu cu cìu purtava a parlare di determinate cose». Nella medesima sentenza si legge inoltre che «quanto ai rapporti tra i fratelli Buscemi, il gruppo Ferruzzi-Gardini e l’ing. Bini, Brusca ha evidenziato di avere appreso da Salvatore Riina che, a seguito della legge Rognoni-La Torre, i Buscemi avevano ceduto fittiziamente le imprese (la cava Bigliemi e una Soc. Calcestruzzi) al gruppo Ferruzzi; che Antonino Buscemi era rimasto all’interno della struttura societaria come impiegato; che l’ing. Bini rappresentava il gruppo in Sicilia e la Calcestruzzi S.p.A..; che i fratelli Buscemi si “tenevano in mano… questo gruppo imprenditoriale in maniera molto forte” e potevano contare sulla disponibilità di un magistrato appartenente alla Procura di Palermo, di cui non ha voluto rivelare il nome; che Salvatore Riina, in epoca precedente all’interesse per l’impresa Reale, si era lamentato del fatto che i Buscemi non mettevano a disposizione dell’intera organizzazione i loro referenti (pag. 137, ud. del 2 luglio 1999)».
E ora?
Ora dobbiamo aspettare. È pur vero che dalle stragi del ’92 sono passati trent’anni, è pur vero che, come ha dichiarato più volte l’avvocato Trizzino, legale dei figli di Borsellino Lucia, Manfredi e Fiammetta, la verità giudiziaria non è riuscita a soddisfare la necessaria e giustificata necessità di verità e giustizia ma la riapertura delle indagini sul dossier “mafia-appalti” potrebbe oggi, proprio con il senno di poi, fotografare l’attuale panorama imprenditoriale, ricostruire il suo sviluppo e capire quale e quanto sia stato il livello di penetrazione della criminalità organizzata di stampo mafioso nell’imprenditoria italiana e non solo. Sarebbe un importante riconoscimento al valore di Falcone e Borsellino ma, soprattutto, l’applicazione del loro metodo di contrasto alle mafie, quello sintetizzabile nel “follow the money”, abbandonato oramai da trent’anni.
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