Giustizia

Storia dell’anarchico Pinelli

1 Agosto 2015

«Noi accusiamo la polizia di essere responsabile della morte di Giuseppe Pinelli, arrestato violando per ben due volte gli stessi regolamenti del codice fascista. Accusiamo il questore e la polizia di Milano di aver dichiarato alla stampa che il suicidio di Pinelli era la prova della sua colpevolezza, e di aver volontariamente nascosto il suo alibi dichiarando che “era caduto”. Gli stessi inquisitori hanno dichiarato di non aver redatto alcun verbale dell’interrogatorio di Pinelli, pertanto ogni eventuale verbale che venisse tirato fuori in seguito è da considerarsi falso. Accusiamo la polizia italiana di aver deliberatamente impedito che l’inchiesta si svolgesse sotto il controllo di un magistrato con la partecipazione degli avvocati della difesa. Accusiamo i magistrati e la polizia di aver ripetutamente violato il segreto istruttorio diffondendo voci e accuse tendenti a diffamare di fronte all’opinione pubblica un uomo assolutamente innocente, ma per loro colpevole d’essere anarchico. Noi accusiamo lo Stato Italiano di cospirazione criminale nei confronti dell’anarchico Pietro Valpreda, da mesi sottoposto ad un feroce linciaggio morale e fisico, mentre le prove che gli inquirenti credono di avere contro di lui, si smantellano da sole una per una».

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Questo è uno dei comunicati che gli anarchici milanesi diramano nel dicembre del 1969 come accusa nei confronti dello Stato, della polizia, della magistratura e, in special modo,del commissario Calabresi. Attaccando lo Stato essi intendevano fare scudo attorno ai propri compagni accusati ingiustamente (come anni dopo dimostrò il processo a Valpreda) e morti durante le indagini. Emblematica, infatti, è la vicenda del ferroviere Giuseppe “Pino” Pinelli precipitato, in circostanze ancora non totalmente chiarite, da una finestra del quarto piano della Questura di Milano mentre era trattenuto ingiustamente (erano già passati tre giorni dal suo fermo dopo la bomba esplosa in Piazza Fontana, e il termine massimo è di 48 ore) e sottoposto ad un estenuante interrogatorio. Era da poco trascorsa la mezzanotte del 15 dicembre 1969 quando Pinelli precipitò nel vuoto senza emettere nessun grido né tentare di aggrapparsi alle sporgenze offerte dal muro dell’edificio. Egli cade a peso morto sul primo cornicione del muro, rimbalza su quello sottostante schiantandosi in fine al suolo dove viene ritrovato dal giornalista de «l’Unità» Aldo Palumbo, accorso sul luogo dopo aver udito i due colpi sordi.

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Cosa avvenne nella stanza dell’interrogatorio di Pinelli nessuno l’ha mai affermato con assoluta certezza. Le varie testimonianze raccolte durante le indagini non sono congruenti tra loro e, di conseguenza, non hanno permesso di giungere alla verità definitiva. Quello che è certo è che l’anarchico è morto mentre era in Questura, e quindi nelle mani dello Stato e, in secondo luogo, che tutti i presenti all’interrogatorio sono stati assolti (ottobre 1975) dopo l’inchiesta del giudice Gerardo D’Ambrosio che ascoltò solo le testimonianze dei coimputati ignorando quella di Pasquale Valitutti, un altro anarchico trattenuto in una stanza contigua. A differenza degli imputati (oltre a Calabresi, i brigadieri Panessa, Mucilli, Mainardi e Caracutta e il tenente dei carabinieri Lograno) , l’anarchico ha confermato in sede processuale la presenza dello stesso Calabresi (che ha sempre negato la sua presenza nella stanza mentre Pinelli moriva) al momento della morte del compagno: «Chi dice che Calabresi non era in quella stanza sta mentendo, nel più spudorato dei modi. Calabresi è entrato in quella stanza, è entrato insieme agli altri, nessuno più è uscito. […] c’era un silenzio incredibile, qualunque passo, qualunque rumore rimbombava, era impossibile sbagliarsi, lui era in quella stanza. […] Dopo circa 20 minuti ho sentito un rumore. – continua Valitutti – Io non voglio fare retorica, era un rumore sordo, muto, cupo, io non sapevo cosa fosse, non sapevo proprio neanche lontanamente avevo immaginato che cos’era quel rumore, e subito immediatamente vengono due poliziotti, mi mettono con la faccia contro la parete e mi dicono “si è buttato” allora realizzo che quel rumore era il corpo di Pino che cadeva, che moriva, un rumore sordo, cupo bruttissimo. E nessuno è uscito da quella stanza fino a quel momento».

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Le parole dell’anarchico, ignorate durante il processo, non lasciano spazio all’interpretazione e descrivono bene la concitazione dei momenti immediatamente successivi alla morte di Pinelli. Morte che, in un primo momento anche durante la conferenza stampa del questore Marcello Guida, viene imputata al suicidio dell’anarchico lasciando non pochi dubbi in chi lo conosceva bene. Sia la moglie Licia che diversi suoi compagni affermarono, infatti, che Pino Pinelli non concepiva affatto il suicidio, era un’eventualità che non ammetteva perché amava troppo la vita. Nelle varie interviste rilasciate in questi 46 anni, Licia, ha sempre dato una sua precisa versione dei fatti radicata in lei come se fosse stata presente alla scena. Tale versione spiegherebbe alcune particolarità, e cioè il motivo per cui a precipitarsi a controllare il corpo fu solo un agente su cinque e perché il volo fu silenzioso: secondo la vedova Pinelli, infatti, il marito sarebbe prima stato picchiato (durante o dopo l’interrogatorio) e, creduto morto dagli agenti, buttato fuori dalla finestra per simularne il suicidio, cosa che spiegherebbe il volo in assoluto silenzio.

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Al suicidio non si è mai creduto anche a causa di alcuni particolari della tesi stessa che risultarono contraddittori. In primis l’ambulanza fu chiamata qualche minuto prima dell’effettiva caduta dal quarto piano, caduta avvenuta quasi in verticale, a testimoniare il fatto che egli non si spinse verso l’esterno, ma scivolò fuori dalla finestra; un altro dubbio sottolineato dall’autopsia è l’assenza di escoriazioni sulle mani, nonostante abbia sbattuto ripetutamente sui cornicioni sottostanti non tentò mai di aggrapparvisi per tentare di salvarsi o di proteggersi istintivamente. A seguire ci furono poi le diverse versioni rilasciate dagli agenti che arrivarono addirittura a motivare la caduta in verticale dovuta ad un vano tentativo di salvare l’anarchico, ciò spiegherebbe pure la presenza – in mano di un agente – di una delle scarpe della vittima, se non che il corpo fu rinvenuto con entrambe le calzature ancora saldamente infilate ai piedi. Ultimi punti fortemente dubbiosi sono la dimensione della stanza e la relativa disposizione dei mobili dentro ad essa che avrebbero reso impossibile il «balzo felino» fuori dalla finestra senza che gli agenti riuscissero ad intervenire tempestivamente per evitarlo, e il fatto che a metà dicembre ci fosse talmente caldo a Milano da dover lasciare una finestra aperta…

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Come detto, nel 1975, arriva come una mannaia la sentenza di proscioglimento emessa da D’Ambrosio che sancisce la fine delle indagini e la definitiva sottomissione della giustizia, imputando la morte di Pino Pinelli ad un fantomatico «malore attivo»; secondo il giudice istruttore, il ferroviere fu vittima di un malore, imputabile a stress, mancanza di riposo e caldo, che provocò un’«improvvisa alterazione del centro di equilibrio» proiettandolo letteralmente fuori dalla finestra a seguito di una serie di «movimenti scoordinati». Un fenomeno che, ad oggi, è rimasto senza precedenti mai più ripresentatosi in nessun Paese conosciuto, né su nessuna enciclopedia medica. La sentenza arrivò dopo la seconda autopsia, effettuata dopo che diversi organi di stampa (tra cui Lotta Continua già pochi mesi dopo la morte di Pinelli) avevano sottolineato la presenza di una lesione bulbare provocata probabilmente da un colpo di karate e che avrebbe dovuto uccidere sul colpo, non due ore dopo. Gli esami non portarono però alla luce nulla di nuovo e fu di conseguenza esclusa qualunque imputazione per omicidio colposo, per abuso d’ufficio (va ricordato che Pinelli era trattenuto illegalmente ben oltre la scadenza del fermo) e falso ideologico nonostante fosse dimostrato che la teoria del suicidio, confermata da tutti gli imputati, fosse falsa e tesa a mascherare le reali responsabilità della questura milanese.

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Ad alimentare i dubbi sulla sentenza, diramando al tempo stesso alcuni dubbi sugli ultimi istanti di Pinelli, nel 1997 si presenta una nuova testimonianza, quella dell’ex maresciallo Giuseppe Mango. Durante le indagini, condotte dal giudice Carlo Mastelloni, per un altro mistero italiano: quello del velivolo militare Argo 16 fatto precipitare, presumibilmente dal Mossad, nelle acque di Mestre. Mango fornisce un’ulteriore versione riguardante il 15 dicembre: egli riportò fondamentalmente la teoria di Allegra, ovvero che Pinelli si trovava di spalle alla finestra e che improvvisamente si era lasciato cadere all’indietro ma aggiunse che ciò, secondo quel che gli era stato riferito da D’Amato, era accaduto solo dopo l’irruzione del capitano dei carabinieri con una falsa confessione di Valpreda costruita per incastrare Pinelli e gli anarchici. Da questa nuova dinamica è risultato palese come sul ferroviere fosse stata prodotta una pressione fisica e psicologica che avrebbe potuto farlo cadere a corpo morto. Questo fatto spiegherebbe anche l’assenza di abrasioni su braccia e mani, ma senza dare una risposta definitiva sulle cause della morte del ferroviere.

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Dato che nessuno dei presenti ha mai detto la verità su quella notte, l’unico che saprebbe dire davvero come andarono le cose sarebbe lo stesso Pinelli. Proprio per questo, secondo la moglie Licia, una volta accorsa in ospedale non le diedero il permesso di visitare il marito in fin di vita, impedendole di dargli l’ultimo saluto. Come accennato in precedenza, egli morì soltanto due ore dopo l’arrivo in ospedale e di conseguenza avrebbe potuto dire qualcosa di compromettente a chi lo avesse avvicinato. Provò a dire qualcosa ai barellieri, ma non riuscirono a carpire le sue parole. Per evitare ulteriori rischi, lo ripete la stessa Licia nell’intervista a Piero Scaramucci (Una storia quasi soltanto mia), «hanno aspettato che fosse ben morto, così non parlava più». E da allora nessuno ha più parlato, nessuno ha più detto come andarono le cose nella notte in cui un anarchico distratto cadde giù dalla finestra (parafrasando i Modena City Ramblers n.d.a.), un anarchico che morì accidentalmente mentre era sottoposto ad un’illegale custodia della Questura di Milano.

 

Andrea Tagliaferri

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