Giustizia
Spesso le omissioni e le imprecisioni diventano, di fatto, un depistaggio
Che cos’è un’opinione? La Treccani la indica come «concetto che una o più persone si formano riguardo a particolari fatti, fenomeni, manifestazioni, quando, mancando un criterio di certezza assoluta per giudicare della loro natura (o delle loro cause, delle loro qualità, ecc.), si propone un’interpretazione personale che si ritiene esatta e a cui si dà perciò il proprio assenso, ammettendo tuttavia la possibilità di ingannarsi nel giudicarla tale (…)». È evidente che l’opinione, così come la libertà di stampa e di espressione, ha un limite, ossia quello della ricerca della verità e non possono considerarsi lecite quando non siano suffragate da, almeno, le seppur poche certezze comprese, e mai ultime, quelle che riguardano atti e sentenze. Si potrebbe eccepire dicendo che spesso la verità giudiziaria è dissimile dalla verità storica ma proprio quest’ultima non può essere redatta in tempo reale con lo sviluppo degli eventi anzi, proprio la verità storica ha bisogno di sedimentare ed esprimersi con il “senno di poi”, sulla base di un’analisi più organica e più articolata che tenga conto del “prima” e del “dopo” al fine di effettuare i riscontri necessari e formulare una verità storica che, ce lo insegna la Storia stessa, dopo secoli può essere ulteriormente messa in discussione da ulteriori sopraggiunti elementi e dalla loro rilettura all’interno di un contesto storico-sociale che, visto da lontano, può apparire meno nebuloso e più delineato rispetto a quanto non lo sia stato nel suo presente. E ancora un’opinione, per essere ritenuta autorevole non come una “chiacchiera da bar”, deve necessariamente essere corroborata dal contraddittorio esistente proprio là dove manchi «un criterio di certezza assoluta per giudicare» perché il confine tra opinione e slogan populisti è davvero labile.
Il riferimento è a quanto pubblicato da tpi.it nella rubrica “Opinioni” lo scorso 31 dicembre, quasi un “messaggio di fine anno”, a firma del dottor Alessandro Di Battista dal titolo “Dal caso Cucchi alla strage di via d’Amelio: così l’Italia si è rassegnata ai depistaggi di Stato”.
È evidente, sin da una prima lettura, che il lungo, proficuo e sacrosanto impegno nell’America Latina in difesa dei diritti umani lo abbia tenuto lontano dai fatti italiani e, soprattutto, non gli abbia permesso di approfondire e valutare prima di esprimere una propria “opinione” rispetto a quanto, con piglio storico-populista, il dottor Di Battista ha scritto nel suo pezzo.
Non basta leggere qualche articolo pubblicato da ambigue testate online o cartacee per concorrere alla ricerca della verità soprattutto quando si sfrutta, anche involontariamente ma non è questo il caso, una propria visibilità mediatica. E non basta, altresì, citare quanto affermato pubblicamente dal dottor Roberto Scarpinato dimenticando la sua recente testimonianza al processo “Mario Bo e altri”, il procedimento giudiziario ancora in corso a Caltanissetta sul depistaggio relativo alla strage di via d’Amelio e dimenticando, soprattutto, le domande poste dal pm Luciani e dall’avvocato Trizzino, legale dei figli del dottor Borsellino, e le risposte del dottor Scarpinato nella citata udienza interrogato a proposito del “dossier mafia-appalti” oggetto, lo ricordiamo, di una richiesta di archiviazione che porta in calce la firma dello stesso dottor Roberto Scarpinato e del dottor Guido Lo Forte presentata il 13 luglio 1992, vistata dal Procuratore della Repubblica P. Giammanco il 22 luglio 1992 e archiviata il 14 agosto 1992. E non possiamo non ricordare che, come ritenuto da ex-colleghi dei magistrati firmatari, detta inchiesta era prioritaria per il dottor Borsellino che riteneva fosse stato messo in atto un insabbiamento, o quantomeno una sua minimizzazione, e nemmeno che durante la riunione del 14 luglio 1992 tale richiesta di archiviazione gli fu taciuta dallo stesso dottor Lo Forte presente alla riunione stessa. E ricordiamo, inoltre, il controverso rapporto insistente tra il dottor Scarpinato e la libertà di stampa e di espressione di cui abbiamo parlato su questa testata a proposito del processo che vede alla sbarra due giornalisti, Damiano Aliprandi e Piero Sansonetti, tutt’ora in corso ad Avezzano.
Non basta per esprimere un’opinione, degna di questo nome, riportare una frase della signora Agnese Piraino che è agli atti e che, proprio sulla base del verbale della sua audizione datato 18 agosto 2009, risulta essere diversa da quella riportata dal dottor Di Battista nel suo articolo per la voluta omissione della parola “colleghi” in quanto nella trascrizione ufficiale dell’atto si legge «Ricordo perfettamente che il sabato 18 luglio 1992 andai a fare una passeggiata con mio marito sul lungomare di Carini senza essere seguiti dalla scorta. In tale circostanza, Paolo mi disse che non sarebbe stata la mafia ad ucciderlo, della quale non aveva paura, ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò̀ potesse accadere. In quel momento era allo stesso tempo sconfortato, ma certo di quello che mi stava dicendo. Non mi fece alcun nome, malgrado io gli avessi chiesto ulteriori spiegazioni, ciò̀ anche per non rendermi depositaria di confidenze che avrebbero potuto mettere a repentaglio la mia incolumità̀; infatti la confidenza su SUBRANNI costituisce un’eccezione a questa regola. Comunque non posso negare che quando Paolo si riferì̀ ai colleghi non potei fare a meno di pensare ai contrasti che egli aveva in quel momento con l’allora Procuratore GIAMMANCO».
E ancora non basta citare il falso collaboratore Scarantino quando si dimentica di ricordare che le sue falotiche accuse furono “validate” dai magistrati che al tempo si occupavano delle indagini e che, ancora oggi, a Caltanissetta è in corso un processo, il già citato “Mario Bo e altri”, il cui obiettivo è proprio quello di arrivare alla verità di quel lungo depistaggio ordito che ha contaminato ben due dei procedimenti relativi alla strage di via d’Amelio.
Che dire, inoltre, del lungo ma parziale e impreciso excursus storico su quelle che vengono definite le “stragi di Stato” ossia attentati o atti terroristici volto a destabilizzare l’ordine costituito, manovrati da organi e personalità dello Stato? Una piccola Wikipedia a uso populista che mescola tempi e luoghi. E lo fa anche nel caso della perquisizione del covo di Riina dopo il suo arresto dimenticando, ma forse in questo caso la sua valutazione è dovuta a una non approfondita conoscenza della fenomenologia mafiosa, delle sue ritualità e dei suoi usi, che il Riina fu arrestato dopo la sua uscita dell’abitazione in cui viveva con la famiglia e non nel suo covo che era in altro luogo, covo nel quale, forse, sarebbe stato possibile trovare carte, documenti, gli immancabili pizzini e quant’altro il Riina detenesse ma per il quale non avrebbe mai messo in pericolo la propria famiglia, non solo dagli “sbirri” ma dai suoi stessi detrattori presenti in Cosa Nostra, nascondendole nella sua abitazione.
E che dire, ancora dell’assist relativo alla tragica morte di Luigi Ilardo, il mafioso che fu informatore del colonnello Riccio, che riporta luoghi comuni e dimentica quanto lo stesso colonnello Riccio abbia invece scolpito sulla roccia indelebilmente con le sue dichiarazioni nei vari procedimenti giudiziari e nelle Relazioni di Servizio da lui firmate come riportato, sempre su questa testata, negli articoli riguardante questo caso nella parte prima, parte seconda, parte terza e nell’analisi di quanto affermato nell’audizione davanti alla Commissione Antimafia della signora Luana Ilardo, figlia di Luigi, lo scorso 16 novembre?
E perché, volutamente, citare le risultanze del primo grado del procedimento denominato “Borsellino IV” dimenticando che il procedimento ha già chiuso il suo iter processuale e quanto deciso dalla corte d’Appello è confermato? Forse perché tale citazione lo avrebbe costretto a parlare delle (poche) verità accertate sulla strage di via d’Amelio, del “covo di vipere”, della non fiducia del dottor Borsellino nei confronti della maggior parte dei suoi colleghi e di come quella semplice parola stralciata dal dottor Di Battista dalle dichiarazioni della signora Agnese Piraino facesse davvero la differenza.
Un tempo, all’interno della confezione del “boero”, un cioccolatino ripieno di una ciliegia intera e di liquore di visciola, maraschino, kirsch o cherry brandy, c’era una sorta di concorso a premi che permetteva di vincerne un altro. Lo stesso concorso, a quel tempo, era sui bastoncini dei ghiaccioli. Non sempre si vinceva, anzi quasi mai e nel bigliettino c’era scritta una frase che mi sembra la più adatta “Ritenta. Sarai più fortunato”
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