Giustizia
«Silvio Badalamenti non era mafioso», parola di Giovanni Falcone
La mattina del 2 giugno 1984, Silvio Badalamenti uscì di casa intorno alle 8:40 per recarsi in ufficio. Arrivato in via Marsala, all’altezza del civico 22, fu raggiunto da diversi colpi di arma da fuoco. Tre donne piansero la sua morte: la moglie Gabriella e le sue figlie. Ancora oggi, dopo oltre 38 anni dalla sua morte il suo nome continua ad essere associato a quello dello zio, il boss Gaetano Badalamenti dimenticando quanto ebbe a dire Giovanni Falcone che disse «Pur, essendo risultato estraneo a vicende illecite, è stato sicuramente soppresso per il suo legame con il potente zio Gaetano» e ancora «Ho scarcerato Silvio Badalamenti ma prima di farlo ne ho parlato con Chinnici, spiegandogli motivi, e lui non ha avuto nulla da obiettare. Su tale scarcerazione ha espresso parere favorevole anche la Procura. Faccio presente infatti che Silvio Badalamenti, nonostante provenisse da una famiglia mafiosa, essendo nipote di Tano Badalamenti, non era esso stesso un mafioso». Queste sono le parole che Giovanni Falcone pronunciò il 6 settembre 1983 dinanzi al CSM confermate, qualora ce ne fosse bisogno, dall’allora capitano dei Carabinieri della compagnia di Marsala Nicolò Gebbia che dichiarò «(il dottor Falcone, ndr) mi disse che il dott. Badalamenti era un galantuomo, che aveva la sfortuna di essere nipote di Tano Badalamenti e che nel rimetterlo in libertà lui gli aveva suggerito, una volta che avesse chiarito la sua posizione processuale, di espatriare e di cercare di fare scordare il suo nome, perché solo così avrebbe potuto sfuggire a questa sorta di nemesi storica che ricadeva su tutti i Badalamenti, quando io provai a opporgli il fatto che nel rapporto dei carabinieri si citava oltre a quello che ho già detto, una volontaria latitanza di alcuni mesi cui si era dato il dott. Badalamenti, lui si mise a ridere e mi rispose che in realtà all’epoca il dott. Badalamenti si era rifugiato ospite a casa di un magistrato suo amico di infanzia, proprio perché temeva di essere ucciso solo in quanto nipote di Gaetano Badalamenti».
Della mancanza dei rapporti tra Silvio e lo zio Gaetano ne ha parlato anche Tommaso Buscetta, nell’ambito del processo per la morte di Peppino Impastato, quando dichiarò che «a Badalamenti ci hanno ammazzato un sacco di parenti che non ricordo più i nomi, che lui mi ha detto ma io… io non mi ricordo più. Assolutamente. Ma questo qua (Silvio Badalamenti, ndr) era più rimarchevole perché era una persona molto perbene e che non aveva niente a che fare neanche con Gaetano Badalamenti. Era solo perché parente. Lui mi disse “questo non ha niente a che vedere con me, lo hanno ammazzato solo perché…” Almeno così mi disse».
Analoghe risultanze si evincono anche dalle indagini condotte dal Commissariato della Polizia di Stato di Marsala che, il 12 marzo 1984, relazionava «Limitatamente alle indagini ed agli accertamenti esperiti, quanto asserito dalla Ruffino (moglie di Silvio Badalamenti) circa la estraneità del marito a sodalizi o fatti mafiosi, non ha trovato smentita. Infatti è emerso che lo stesso si dedicava soltanto al lavoro ed alla famiglia senza intrattenere particolari rapporti con alcuno».
Il racconto della figlia Maria non lascia alcun dubbio sulla distanza che ci fosse tra suo padre e Gaetano Badalamenti. «Mio padre è cresciuto lontano dai Badalamenti – racconta – Don Tano Badalamenti era potentissimo e tutti lo volevano al loro fianco, ma non mio padre. Quando nel 1972 si sposa, come testimoni di nozze non ha i Badalamenti bensì tre uomini delle Istituzioni. Don Tano non fu nemmeno invitato al matrimonio. Mio padre – continua Maria – caratterialmente somigliava più alla famiglia materna che non a quella paterna cresciuta lontano dai Badalamenti. Aveva studiato al Gonzaga, si era laureato e aveva un impostazione mentale, valoriale e comportamentale completamente diversa da quella dei mafiosi che portavano il suo stesso cognome».
Non solo sono volutamente dimenticate le parole di Giovanni Falcone – ma questo sembra oramai essere uno sport diffuso, soprattutto in questo periodo – ma si fa riferimento ad un errore presente nell’ordinanza in cui si indica erroneamente la società di riscossioni per la quale Silvio Badalamenti lavorava. Si rende necessario un chiarimento:
Fu Luigi Corleo a costituire nel 1946 la SATRIS (Società per Azioni Tributaria Siciliana), con lo scopo di assumere in appalto i servizi di riscossione delle imposte sul territorio siciliano. La figlia, Francesca, convolerà a nozze nel 1955 con Antonino Salvo che, con il cugino Ignazio, entrambi uomini d’onore della famiglia di Salemi, inizierà così la sua fortunata carriera di gabelliere. Nel dicembre del 1956 nacque la SIGERT (Società Gestione Esattori Ricevitorie Imposte e Tesorerie), per la gestione delle esattorie a Bagheria e in provincia di Messina, Ragusa e Caltanissetta il cui vice-presidente era Francesco Cambria e segretario Antonino Salvo. Nel luglio del 1960 nacque la SAGAP (Società per Azioni Gestione Appalti Pubblici), cui viene affidata la gestione dell’esattoria comunale di Palermo. Presidente della nuova società è Ignazio Salvo e, insieme a lui, risultano soci il cugino Nino, Francesco Cambria e Maria Corleo.
Silvio Badalamenti non lavorava per nessuna delle società di riscossione del gruppo Corleo-Cambria-Salvo ma per la S.A.R.I. (Società Anonima Riscossione Imposte), una vecchia società sorta nel 1912 con sede a Firenze che agiva su tutto il territorio nazionale, e anche in Sicilia, come è dimostrato da un’attestazione di servizio della stessa S.A.R.I. che lo indica come collettore delle II.DD., le Imposte Dirette.
A questo punto una domanda sorge spontanea, anzi due: a chi conviene infangare la memoria di Silvio Badalamenti? Quali possibili interessi ci sono dietro questa sua continua delegittimazione? In una sola domanda “Cui prodest?“
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