Giustizia

Milio, avvocato di Mori: «Nessuna trattativa, dunque, ma attività investigativa»

24 Settembre 2021

«La sentenza afferma che l’attività dei Carabinieri, si configura in un’attività di tipo infra-investigativo, ossia un rapporto tra ufficiali di polizia giudiziaria e un confidente, una fonte, un informatore che fornisce notizie, non in un reato»

 

Ieri, 23 settembre 2021, poco dopo le ore 17, dall’aula bunker del carcere Pagliarelli a Palermo, la Corte di assise di Palermo, presieduta dal giudice Angelo Pellino e giudice a latere Vittorio Anania, tre anni e mezzo dopo la sentenza di primo grado, che era stata emessa dalla corte d’assise presieduta da Alfredo Montalto, il 28 aprile 2018, ha comunicato l’attesa sentenza del processo di appello “Bagarella e altri” anche denominato “presunta trattativa Stato-mafia”. La sentenza ha, sostanzialmente, ribaltato quanto inflitto dalla Corte di assise al termine del processo di primo grado. Oggi risultano assolti i carabinieri del Ros Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno oltre al senatore Marcello Dell’Utri, in primo grado erano stati condannati a 12 anni Subranni, Mori e Dell’Utri e a 8 anni De Donno. Inoltre è stata ridotta pena a 27 anni, contro i 28 della sentenza del primo grado a Leoluca Bagarella mentre al medico mafioso Antonino Cinà la pena è stata confermata a 12 anni.

In attesa del deposito delle motivazioni, che arriveranno tra 90 giorni, ho intervistato l’avvocato Basilio Milio, difensore del generale Mario Mori per avere “a caldo” la sua valutazione.

Avvocato, innanzitutto un chiarimento. Non mi sembra che il nostro codice penale preveda il reato di “trattiva” ma piuttosto quanto previsto dall’art. 338 che prevede punisce il reato di violenza o minaccia al Corpo politico amministrativo e giudiziario dello Stato.

«Qui si pone il primo problema, come hanno osservato autorevoli giusti, tra questi il professor Fiandaca, perché la norma corretta applicabile al caso specifico sarebbe l’art.289 del Codice Penale che prevede e punisce l’attentato contro gli organi costituzionali. Questo perché, secondo l’ipotesi della procura, tutti gli imputati avrebbero minacciato il Governo Della Repubblica che, in quanto tale, è organo costituzionale e non semplicemente un “corpo politico”».

Questa sentenza mette in discussione l’impianto accusatorio del processo di primo grado.

«Sì, la formula assolutoria degli ufficiali dei Carabinieri fa pensare questo, ossia che l’attività avviata, consistente nei contatti avviati con Vito Ciancimino che, sempre secondo la procura, sarebbe sfociata nella “trattativa” e poi nella minaccia al Governo, sarebbe invece stata fatta in assenza di dolo. I Carabinieri con l’iniziativa di contattare Vito Ciancimino non intendevano intavolare un negoziato e fare un accordo con la mafia ma ben altro, ossia combattere la mafia attraverso le informazioni ricevute dallo stesso Ciancimino al fine di catturare i latitanti, che all’epoca ricordo essere Riina, Provenzano e i loro sodali».

Questo modus operandi l’abbiamo però già visto e individuato nei decenni precedenti, ossia la ricerca di un confidente per ottenere notizie.

«Si, diciamo che l’attività dei Carabinieri, peraltro qualificata dalle sentenze che ci sono state sia nei confronti di Mannino sia di Mori, in processi in cui sono stati assolti, si configura in un’attività di tipo infra-investigativo, ossia un rapporto tra ufficiali di polizia giudiziaria e un confidente, una fonte, un informatore che fornisce notizie. Non dimentichiamo che allora non c’era tutto il sofisticato apparato d’intercettazione che è possibile usare oggi. A quel tempo le indagini di facevano così, usando i confidenti, gli informatori».

A suo giudizio, seppur in mancanza delle motivazioni, qual è stato il peso dei collaboratori di giustizia in questo processo?

«Come dice lei, giustamente, la mancanza delle motivazioni non ci consente ancora di realizzare un’analisi puntuale. E’ però evidente che alcuni collaboratori, e mi riferisco principalmente a Pietro Riggio, non ritengo che abbiano ottenuto un grande credito. La differenza tra l’assoluzione al secondo grado e la condanna al primo grado, ritengo che non sia imputabile solo alla credibilità o meno dei collaboratori di giustizia ma sia anche dovuta alla valutazione dei fatti e alle prove. Probabilmente si è più tenuto conto della realtà dei fatti che si era già esplicitata nella sentenza di assoluzione di Mannino e anche con l’assoluzione di Mori relativamente alla mancata cattura di Bernardo Provenzano a Mezzojuso. Tutti quei rapporti sono stati valutati per quello che sono stati, un rapporto legittimo e lecito tra carabinieri e una fonte. È evidente che durante il primo grado tutto questo è stato, invece, letto come una vera e propria trattativa tra lo Stato e la mafia».

Dopo questa sentenza, è pensabile che finalmente si guardi a 360° ossia si riprenda in considerazione, ad esempio, il “Dossier mafia-appalti”, voluto da Giovanni Falcone e realizzato proprio da quei ROS che erano alla sbarra?

«Spero che questa sentenza consenta di fare un passo ulteriore. Lo spero e me lo auguro di cuore, anche per le famiglie del dottor Borsellino e di Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina che sono morti nella strage di via d’Amelio. Onestamente in appello sono stati ammessi molti documenti non ammessi nel primo grado che si sono aggiunti a documenti che ho trovato, anche fortunosamente, e che durante il primo grado non erano ancora disponibili oltre alla testimonianza del dottor Di Pietro. Tutto questo nuovo materiale ha ben lumeggiato quello che era l’interesse del dottor Borsellino dopo la morte del dottor Falcone, quello che era l’idea del dottor Borsellino, ossia di una relazione tra la strage di Capaci e l’interesse che il dottor Falcone stesso aveva di questo dossier. E’ stato evidenziato il suo proposito di riprendere quel lavoro proprio con la collaborazione del ROS, con De Donno sotto la direzione di Mori, per portarlo avanti. Ne parlava pubblicamente, con i suoi colleghi e proprio cinque giorni pima della sua morte, difese i carabinieri e il loro operato. Dire, com’è stato sostenuto nella sentenza del primo grado, che il dottor Borsellino non avesse nessun interesse per il “dossier mafia-appalti” non risponde alla verità dei fatti e delle prove raccolte».

Mi ha anticipato che il generale Mori non rilascerà dichiarazioni ufficiali ma lei, ieri, l’ha sentito.

«Si, l’ho chiamato subito dopo la lettura della sentenza per comunicargli l’esito. Era evidentemente soddisfatto e mi ha detto che, anche se a fatica, poco a poco la verità viene fuori. Mi ha richiamato alcune ore dopo per dirmi che riteneva che mio padre (Pietro Milio, ndr) sarebbe stato fiero di me».

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