Giustizia
Procuratore Gratteri, sulle intercettazioni la sua riforma sa di doppia morale
Dobbiamo qui, in premessa, enumerare i molteplici motivi per cui considerare Nicola Gratteri un ottimo magistrato? Vorremmo evitarci questa umiliazione, solo per il fatto di doverlo criticare, di dovergli modestamente dire: ripassi la lezione sulle intercettazioni, procuratore, perché ci ha capito poco o punto e guarda un po’ il caso Lei è arrivato alle conclusioni banalmente dove arrivano tutti, dove arriverebbero tutti, belli e brutti, capaci e molto meno capaci di Lei, cioè al carcere per i giornalisti. Ma sai che gran novità! Invece che il carcere per i magistrati, no, il carcere per i cronisti. Magari il carcere per nessuno e un’impianto più intelligente? Possibile che in questo Paese solo l’evocazione del Gabbio sia la panacea a tutti i mali?
Fatto sta che a queste conclusione sarebbe arrivato il procuratore aggiunto di Reggio Calabria, che in nome e per conto di Matteo Renzi presiede quella commissione istituzionale che deve esattamente partorire una riforma su questo maledetto garbuglio delle intercettazioni e sulle conseguenti regole di diffusione. Teniamo conto che il procuratore Gratteri doveva occupare nel governo posizione ben più prestigiosa, scelto com’era stato scelto dal premier per la poltrona di Guardasigilli, che poi finì, su amorevole consiglio di Napolitano, sulle spalle di Andreatentenna Orlando.
Ma insomma oggi leggiamo sul Corriere, a firma Giovanni Bianconi, sulla cui attendibilità sentiamo di poter spendere più un soldino, che l’impianto sarebbe già a buon punto e un titolo esaustivo del quotidiano di via Solferino lo rivelerebbe: «Anche il carcere per chi pubblica le intercettazioni irrilevanti». Perché di questo si tratta, in sostanza: capire, stabilire, selezionare, quali siano in quelle migliaia di pagine, le conversazioni che non hanno alcuna attinenza con l’indagine e che possono violare la privacy, e di conseguenza rovinare la vita, delle persone. Un argomento capitale per una società democratica.
Il processo tecnico, che Bianconi spiega sul Corriere, prevede un divieto preventivo «imposto a pubblici ministeri e giudici: nelle richieste e nelle ordinanze d’arresto non potranno inserire i testi integrali dei colloqui registrati, a meno che la trascrizione completa non abbia una diretta relazione con il capo di imputazione. Il resto delle intercettazioni finirà ugualmente a disposizione delle parti dell’indagine, in atti che però non potranno essere diffusi».
Avete capito bene? L’idea di Gratteri è semplice e schiettamente corporativa. Si dice ai colleghi: occhio perché voi nelle ordinanze e nelle richieste non ci potete buttare tutto quello che vi pare, quello che titilla i buchi della serratura, il vedo non vedo, sodomie del pensiero e affini, ma solo quello che abbia come oggetto la vostra indagine. Poi, però, alle parti – quindi a centinaia e centinaia di persone, giornalisti compresi che stanno lì con la lingua bavosa che scende fino a terra in attesa di “robba” forte, dategli tranquillamente tutto il decamerone pasoliniano perché si divertano, se li gustino in redazione, ci facciamo tutti gli stronzi commenti possibili, ma senza possibilità di pubblicare alcunché, «PENA LA GALERA».
«Ed ecco – scrive Bianconi sul Corriere – la conseguente norma immaginata per chi non rispetta questo divieto. È un nuovo articolo del codice penale , numero 595 bis, da inserire subito dopo il 595 che punisce la diffamazione. Il reato dovrebbe chiamarsi «pubblicazione arbitraria di intercettazioni» (ma va?) e prevede che chiunque pubblichi o diffonda con qualsiasi mezzo i testi di intercettazioni o altre forme di comunicazione “acquisite agli atti di un procedimento penale” il cui contenuto “abbia portata diffamatoria e risulti manifestamente irrilevante ai fini di prova”, venga punito con una sanzione da 2.000 a 10.000 euro, o con la detenzione da due a sei anni».
Qui, procuratore Gratteri, dobbiamo intenderci sul peso, sulla portata da assegnare, alla filiera che gestisce il flusso delle intercettazioni. Dando un valore, magari anche numerico, ai soggetti in campo. Tra il primo della filiera, colui il quale (al di là del tecnico che materialmente registra) viene in possesso del materiale originario, cioè il giudice, e l’ultimo, quello che attraverso atti pubblici ne dispone, cioè il cronista, c’è una differenza in termini di “responsabilità oggettiva”, giusto per usare una terminologia cara al calcio o sono assimilati allo stesso livello? Vogliamo dare un 9 al giudice e un 7 al giornalista, ne conviene? Il suo impianto, invece, stravolge e rovescia il senso di responsabilità, che Lei corporativamente protegge nel caso dei suoi colleghi, ai quali tocca solo la virginale competenza di selezionare le intercettazioni nel caso delle loro ordinanze o richieste, e che invece, con una doppia morale degna di miglior causa, mette in carico ai giornalisti, ai quali comunque arriverà l’intero girone infernale delle intercettazioni, nelle cui “tentazioni” dovranno districarsi. Come dirgli, perdoni la franchezza: cazzi vostri.
È inutile manarsela furiosamente con le interpretazioni del termine “portata diffamatoria”, lo facciamo da anni e ancora non abbiamo trovato la quadra. Ci sono state luminosissime sopraffazioni della privacy nel corso di questi anni, veri e propri sfregi della dignità umana, che però sono stati “liberati” serenamente dai giudici e poi utilizzati dai cronisti. Con la sua riforma, il giudice paraculescamente se ne laverebbe le mani, evitando di abbattere in radice quel che per lui sarebbe di “portata diffamatoria”. O peggio, lo fa semplicemente per sè, evitandosi procedimenti disciplinari, e butta tutto nella gola profonda dei giornali, dove Lei immagina la galera. A ognuno la sua responsabilità e nel caso delle intercettazioni nessuno, al di là o al di qua del solo giudice, può decidere cosa va o cosa non va in un atto pubblico.
La sua è doppia morale, procuratore Gratteri. Se ne renda conto.
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