Giustizia
Renzi smorza, Fanfani attacca: qual è la vera linea del Pd sulla giustizia?
“Ma quale complotto, lasciamo che i magistrati lavorino”. Di prima mattina Matteo Renzi dà la linea a tutte le divisioni democratiche d’Italia, smorza le polemiche di appena ieri, corregge anche i retroscena ancora freschi di stampa che lo volevano ora perplesso, ora addirittura battagliero, sulle indagini di Lodi che hanno portato all’arresto del sindaco Pd Simone Uggetti. Sta di fatto che Renzi, avendo forse compreso che la pressione sale e che i rischi nei prossimi mesi si faranno via via più elevati, e che un’escalation giudiziaria vedrebbe il Pd dalla parte della vittima e altri da quello dei collettori di consenso, ha frenato decisamente. Sulla vicenda contingente di Lodi ha fatto una dichiarazione neutra che sembra fugare ogni dubbio e, in prospettiva, sempre negare ogni volontà di fare una battaglia politica a breve sul tema del complesso rapporto tra politica e magistratura, schierandosi dalla parte di chi vede nelle invadenze e nelle fughe di notizie il problema principale.
Tutto bene, tutto chiaro? È, questa, espressa dal segretario premier l’ultima parola sul tema? La domanda diventa retorica, perché nella stessa giornata oggi una notizia di segno decisamente opposto. Giuseppe Fanfani, nipote del famoso Amintore, avvocato pd già con lunghi trascorsi ulivisti lato Margherita e oggi membro laico del Consiglio Superiore della Magistratura, nominato nel 2014 coi voti compatti di tutto il pd a trazione renziana, ha annunciato di voler avviare una pratica per verificare la legittimità dell’arresto di Uggetti. Fanfani in particolare dichiara: “Non ho mai visto, in 40 e più anni di attività di penalista incarcerare alcuno per un reato come la turbativa d’asta, soprattutto quando l’interesse dedotto è quello di una migliore gestione di una piscina comunale. Non mi pare fossero necessari provvedimenti di cautela, ma se proprio lo si riteneva bastavano provvedimenti interdittivi e non certo coercitivi. Il carcere, poi, mi pare del tutto fuor di luogo, frutto di una non equilibrata valutazione del caso”.
Ora, Fanfani nel Pd renziano non è uno qualsiasi. È stato sindaco di Arezzo, feudo di Maria Elena Boschi, ed è da sempre molto vicino a Banca Etruria, quella di Boschi senior, che ha spesso assistito, nelle persone di funzionari e dirigenti, in diversi procedimenti penali. Tanto che ora il marchio Legale Fanfani è in mano al figlio Luca, anche lui avvocato, è lo studio di riferimento per la famiglia Boschi e assiste Pier Luigi Boschi in diverse giudiziarie. È un politico e avvocato quasi settantenne che ha assecondato e benedetto il cambiamento renziano, e negli archivi si trovano sue lettere aperte pubblicate sulla Nazione di Firenze in cui, pur ribadendo amicizia per Enrico Letta, sosteneva pubblicamente la candidatura di Matteo Renzi a segretario, puntualizzando di non avere ambizioni personali e auspicando che presto si affrontasse, col segretario giusto, la campagna elettorale. Eravamo nel pieno del 2013 e un anno dopo, con Renzi ormai al governo, Fanfani viene nominato in quota Pd al Csm.
Alla fine del quadro, più che risposte, restano domande. Qual è la vera linea del pd sulla “questione giustizia”? Quella attendista, improvvisamente prudente di Matteo Renzi o quella espressa più muscolarmente da Fanfani? E si può davvero immaginare che Fanfani, pur nel rispetto delle prerogative di indipendenza del ruolo, si muova senza rappresentare una sensibilità diffusa nel Pd renziano o, magari, nell’area che più apertamente si riconosce in Maria Elena Boschi che, appena qualche settimana fa, sembrava conoscere i primi dissapori col capo, premier e segretario Renzi? Dopo le domande, una certezza che invece c’è, o anche due o tre: in Italia c’è sicuramente un problema di rapporto tra giustizia e politica. C’è una giustizia che spesso e volentieri ha preferito anticipare con provvedimenti spettacolari gli effetti di sentenze che non sono mai arrivate e una politica, d’altro canto, che ha rifiutato di risolvere in maniera radicale una questione morale diffusa e radicata a diverse latitudini, sia politiche che geografiche. I due mali andrebbe affrontati radicalmente e senza sconti, da ambo le parti, insieme. Se il fronte della purezza non fosse rappresentato dalle forche agitate da Davigo, da un lato, e la testa d’ariete del garantismo non fosse un membro del Csm avvocato professionalmente legato al padre indagato di una ministra di punta, dall’altro, forse tutto sarebbe un po’ più facile o, almeno, un po’ meno difficile.
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