Giustizia

Quattro decisioni dei giudici europei

16 Marzo 2017

Alcune decisioni delle Corti Europee di questa settimana intervengono su questioni dibattute.

Zone di transito al confine in Ungheria
La Corte europea per i diritti dell’uomo nel caso Ilias ed Ahmed contro Ungheria (domanda numero 47287/15) ha censurato il confinamento dei profughi in campi alla frontiera dell’Ungheria ed il loro respingimento in Serbia. I giudici di Strasburgo hanno convenuto all’unanimità che le condizioni nel campo siano state adeguate, ma il confinamento stesso per 23 giorni dei due cittadini del Bangladesh si è tradotto in una detenzione illegale senza possibilità di rimedio giudiziario. Parimenti ne hanno censurato il respingimento in Serbia l’8 ottobre 2015. La Corte ha rilevato che le autorità non hanno svolto un’indagine individuale sulle richieste di asilo, ma solo attuato il respingimento in un Paese elevato come sicuro da un decreto governativo del luglio 2015 -quando al contrario la Commissione per i Rifugiati delle Nazioni Unite ancora nel dicembre 2016 ha dubbi al riguardo- senza neppure esaminare alcun argomento contrario sollevato dai richiedenti tutela.
I ricorrenti nati rispettivamente nel 1983 e nel 1980 avevano lasciato il Bangladesh passando per la Grecia, la Macedonia a la Serbia per arrivare in Ungheria il 15 settembre 2015 e richiedervi asilo. Furono subito confinati a Röszke in una zona di transito al confine recintata e sorvegliata, dove sono stati trattenuti. I giudici hanno rilevato che neanche i loro legali vi furono lasciati entrare. Anche se le condizioni di alloggio erano adeguate -in due in un container di 13 metri quadri in cui ci si poteva stare in cinque- la loro permanenza equivalse ad una detenzione disposta senza una previa decisione giudiziaria e pertanto anche senza rimedi giuridici. Entrambi i rifugiati erano privi di istruzione e furono informati sulla procedura solo con informazioni scritte in un opuscolo che oltre a tutto era in una lingua che uno dei due neanche capiva. Come se non bastasse un parere psichiatrico statuì che non avessero esigenze che non potessero essere esaudite nella zona di transito, pur riscontrando tracce di disordini da stress post-traumatici. Nondimeno la detenzione fu abbastanza breve da non dover essere considerata inumana. I magistrati hanno tuttavia dubitato che i ricorrenti siano usciti volontariamente dall’Ungheria per tornare in Serbia, perché così facendo si sarebbero sottoposti -come è infatti avvenuto- al rischio di perdere il diritto all’asilo. La decisione di rifiuto è stata notificata in traduzione ai loro legali solo due mesi dopo che i ricorrenti avevano già lasciato il Paese. Strasburgo ha condannato l’Ungheria a pagare 10.000 euro a ciascuno dei ricorrenti a titolo di risarcimento danni ed 8.705 per le spese.

 

Libertà di espressione
La stessa Corte europea per i diritti dell’uomo ha anche avuto modo di esprimersi sulla libertà di espressione e la libertà di stampa nel caso Olafsson contro Islanda (domanda numero 58493/13). Il ricorrente era l’editore della pubblicazione on line Pressan. Dal novembre 2010 al maggio 2011 ha pubblicato una serie di articoli in cui ha riferito, con citazioni testuali, le accuse verso un politico mosse da due sorelle imparentate con questi, e da esse diffuse in rete, di esser state violentate quando minorenni. In Islanda dovevano tenersi le elezioni per il rinnovo dell’assemblea costituzionale e le sorelle indicavano che l’uomo non fosse idoneo per una carica pubblica. Le accuse erano false ma il politico non procedette a denunciarle per diffamazione, prendendosela invece col giornalista che venne condannato a pagare circa 1.600 euro di danni non patrimoniali ed oltre 6.000 di spese.
La Corte di Strasburgo ha ritenuto che il politico era candidato alla vigilia di elezioni ed era suscettibile di un maggior scrutinio rispetto agli individui comuni. Gli articoli erano in buona fede e rispondenti agli standard giornalistici: erano stati redatti ricorrendo a diverse interviste e dando spazio anche al fatto che l’accusato si proclamava innocente. Anche se le accuse erano diffamatorie esse non venivano dal giornalista che le riferì, provocando questi invece un dibattito aperto sul tema della violenza ai minori. I giudici islandesi -hanno concluso i colleghi di Strasburgo- non hanno saputo trovare un giusto equilibrio tra il diritto di espressione giornalistica e la protezione della reputazione dei terzi. Nondimeno siccome il ricorrente non ha avanzato richieste pecuniarie non gli hanno riconosciuto il diritto ad alcun risarcimento.

 

Hijab, copricapo islamico femminile
La Corte dell’Unione Europea di Lussemburgo si è confrontata con il tema della legittimità del divieto del velo islamico sul lavoro decidendo che esso può legittimamente essere imposto se un’azienda dispone una regola generale avverso tutti i simboli religiosi. L’occasione è stata un parere richiestole dai tribunali nazionali in due casi distinti uno riguarda un’addetta alla reception di un’azienda belga, l’altro una sistemista software in Francia (numeri di protocollo C-157/15 e C-188/15). Nel primo caso Samira Achbita dopo 3 anni di impiego come receptionist di un’impresa di servizi di sicurezza fu licenziata per aver manifestato l’intenzione di indossare lo hijab perché l’azienda aveva previsto come regola interna il divieto di segni visibili atti a manifestare qualsiasi convinzione religiosa, filosofica o politica. Il secondo caso è stato promosso da Asma Bougnaoui impiegata come sviluppatrice software da una ditta francese che l’ha licenziata nel 2009 solo dopo che un cliente si era lamentato perché portava lo hijab. Entrambe hanno fatto causa avverso i datori di lavoro ed i giudici nazionali hanno chiesto un’interpretazione alla Corte di Lussemburgo.
Per i giudici europei la regola non diretta contro una singola religione, od esclusivamente verso il personale in contatto con i clienti, non è discriminatoria. Un trattamento differente di diversi orientamenti religiosi sarebbe invece applicabile solo se motivabile da effettive ragioni e necessità lavorative, vale a dire motivi igienici o di sicurezza connessi all’incarico specifico.
Nel caso belga la procuratrice generale avanti alla corte europea Juliane Kokott ha ritenuto che un divieto possa essere legittimo ed in questa interpretazione è stata seguita dai giudici che hanno rinviato alla libertà di impresa esistente anche nello statuire regole interne all’ambiente di lavoro che perseguano una politica di assoluta neutralità verso politica, filosofia e religione. Non così invece ha rilevato nel luglio 2016 la collega Eleanor Sharpston nei confronti della controversia francese in cui ha individuato essere stata posta una discriminazione indiretta ed i giudici hanno convenuto che il desiderio di un datore di lavoro di assecondare simili desideri di un cliente, non può essere interpretato alla stregua di un’esigenza fondamentale e decisiva connessa all’attività svolta. Entrambi i casi devono comunque essere ora decisi dai giudici nazionali.

 

Il tema dei divieti di simboli religiosi sul luogo di lavoro non deve essere letto solo come inerente allo hijab. Le pronunce in discorso si riflettono anche a chi porti un crocefisso ben visibile su una felpa od una kippà sul capo. È appena il caso di ricordare che per la candidata alla Presidenza francese Marine Le Pen sarebbe auspicabile un divieto assoluto dello hijab in pubblico in Francia e che anche gli ebrei dovrebbero liberamente rinunciare a portare la kippà in strada. Invito che ha destato molto sconcerto nelle comunità ebraiche francesi (anche se un divieto sarebbe facilmente aggirabile indossando la kippà sotto un cappello; in Germania la stessa Unione delle comunità ebraiche tedesche tempo fa aveva invitato gli ebrei religiosi di non esibirla in certi quartieri di Berlino per evitare di essere oggetto di attacchi). In Germania una decisione della Corte Costituzionale nel gennaio 2015 ha invece statuito che nelle scuole non può esserci un divieto generale allo hijab. Esso può essere introdotto solo nei singoli casi in cui emergano concreti pericoli per la quiete scolastica, o sia aperta espressione di un tentativo di proselitismo. Decisione che si sposa con le regole di tolleranza religiosa, anch’essa intrinseca agli ideali europei di libertà.

 

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