Giustizia

Quasi 5 anni di processo a neonazisti: le conclusioni delle parti civili

15 Febbraio 2018

Il processo per i crimini del gruppo neonazista Clandestinità nazionalsocialista (NSU), 10 omicidi (a 9 cittadini con origini straniere ed una poliziotta), 43 tentati omicidi, tre attentati a danno di immigrati e 15 rapine a mano armata, condotti in lungo ed in largo nel Paese per 13 anni, dà la dimensione di quanto il baratro morale di una banda criminale alimentata dall’odio razziale, accompagnato dall’ignavia di chi è stato incapace di coglierne l’esistenza e poi oltre a tutto ha fatto di tutto per coprire i propri errori, possa portare ad esiti tragici.

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Il gruppo terroristico NSU ha ucciso il 9 settembre 2000 a Norimberga Enver Simsek, il 13 giugno 2001 nella stessa città Abdurrhaim Özüdoğru, il 17 giugno dello stesso anno Süleyman Tasköprü ad Amburgo, ed ancora il 29 agosto 2001 Habil Kilic a Monaco di Baviera. Poi ci fu una pausa negli omicidi che ripresero il 25 febbraio 2004 a Rostock dove fu ammazzato Yunus Turgut, il 9 giugno 2005 di nuovo una vittima a Norimberga, ĺsmail Yaşar, pochi giorni dopo il 15 giugno Theodorus Boulgarides a Monaco di Baviera, in fondo distante da Norimberga appena un’ora e mezza in auto, il 4 aprile 2006 i terroristi falciarono a Dortmund Mehmet Kubasik, 2 giorni più tardi a Kassel Halit Yozgat e non molto più tardi, il 25 aprile, fu spenta la vita di Michèle Kiesewetter ad Heilbronn.

A Monaco di Baviera sono quasi cinque anni che con una media di tre giorni alla settimana l’unica supposta superstite del nucleo terroristico, Beate Zschäpe, ed un gruppo di quattro coadiutori Carsten Schultze, Holger Gerlach, Ralf Wholleben e André Eminger sottostanno a giudizio. Lei Beate Zschäpe ha taciuto per 248 giorni, poi si è affidata a due nuovi legali ed ha cominciato a rispondere attraverso questi ultimi, per iscritto, a distanza di giorni e solo alle domande del presidente della Corte, Manfred Götzl. Le risposte sono state messe a nudo come poco credibili dalla vivisezione che ne hanno fatto i legali delle parti civili che pure non potevano porle domande essi stessi perché lei ha dichiarato non vi avrebbe risposto. Beate Zschäpe definita dall’avvocato Stefan Gärtner (rappresenta la madre della poliziotta Michèle Kisewetter, secondo le risultanze processuali uccisa a 22 anni da Uwe Mundlos) “gelida calcolatrice, egocentrica e soprattutto egoista” non ha mai lasciato riconoscere di provare “pentimento” o “empatia” verso le vittime. Solo quando è stato proiettata la foto dei volti martoriati dei complici ha lasciato trasparire una reazione stizzita, o quando dei testi hanno scalfito l’immagine che lei voleva dare di sé stessa ha dimostrato disappunto. Nemmeno quando il padre di Halit Yozgat, con voce affranta si è gettato per terra per indicare come ha trovato il figlio morente strillando “cosa avete fatto al mio agnello”, Halit aveva solo 21 anni quando fu freddato, o la moglie Ayse si è rivolta a lei direttamente, Beate Zschäpe ha perso il suo aplomb. Poi ci sono state le proiezioni delle foto delle sue vacanze con i compagni Uwe Böhnhardt ed Uwe Mundlos, un trio sorridente, dopo gli omicidi e prima dei successivi, in vacanza coi proventi delle rapine. Le testimonianze delle ragazzine che hanno conosciuto Lise (come Beate Zschäpe si faceva chiamare in clandestinità) in vacanza a Fehmarn come un’amica del cuore. Quindi il clangore di una ventina di armi del gruppo terroristico, rinvenute nei resti dell’ultimo covo dato alle fiamme da Beate Zschäpe e nel camper in cui i suoi compagni di fuga Mundlos e Böhnhardt sono morti dopo l’ultima rapina che aveva fruttato un bottino di 71.915 euro a Eisenach, appoggiate sullo scranno dei giudici. Un arsenale da guerriglia, accompagnato dalle testimonianze di investigatori che non sanno spiegare perché non hanno sospettato che gli omicidi avessero matrice razzista. Le comparsate di tanti testimoni di estrema destra, quasi tutti con vuoti di memoria neanche avessero un Alzheimer galoppante, o trincerantisi dietro la facoltà di non rispondere.

Adesso quel processo è arrivato al traguardo delle 411 udienze e si è completato l’excursus delle dichiarazioni conclusive delle parti civili. Una trentina, circa la metà dei legali delle parti lese ammesse hanno preso la parola, un paio di origini turche, come la maggior parte delle vittime, si sono forse sentiti investiti più di altri nel loro ruolo; altri invece hanno mirato ad avere piuttosto solo il gettone di presenza senza contribuire mai in anni di processo. Le istanze conclusive pronunciate sono state di tenore diverse tra loro ma grosso modo largamente concordi nel lamentare la presbiopia degli inquirenti nelle indagini e nello sconfessare la tesi della Procura Generale che ci sia stato solo un trio di terroristi ed alla sbarra siedano ora l’unica colpevole superstite e l’intero gruppo di coadiutori. Un gruppo elitario isolato che perciò ottenne di non farsi scoprire per più di dieci anni.

L’avvocato Peer Stolle (rappresentante legale di Ergün Kubaşık figlio del ristoratore Mehmet Kubaşik ucciso a Dortmund il 4 aprile 2006) ha ricostruito la nascita del gruppo, avanzando la tesi che esso fosse nato a Jena ancora prima che il trio Uwe Böhnhardt, Uwe Mundlos e Beate Zschäpe scendesse in clandestinità nel 1998. Fin dal 1995 avevano avviato una strategia in continua ascesa e non furono affatto isolati dal resto dei militanti neonazisti. Iniziando con bombe finte, poi lettere incendiarie con l’annuncio di un anno di esplosioni e quindi l’impiego di TNT e polvera nera per confezionare ordigni. Il tutto alimentato dall’idea paranoica di dovere fermare la “scomparsa del popolo tedesco”. L’avvocato Axel Hoffmann (legale di una potenziale vittima di tentato omicidio nella Keupstraβe) ha ricordato come il brodo di coltura sia stato il Thuringer Heimat Schutz (THS) creato dall’informatore del Verfassungschutz Tino Brandt e la Sektion Jena inserite nel circolo nazionale Gesinnungsgemeinschaft der Neuen Front (GdNF). Il trio ottenne poi pieno appoggio dal circuito neonazista Blood & Honour paladino della paranoica frase di 14 parole “dobbiamo assicurare l’esistenza del nostro popolo ed il futuro dei nostri bimbi bianchi” che si ritrova anche nei circoli degli Hammerskin rispecchiato nella Weißen Bruderschaft Erzgebirge fondata dall’imputato André Eminger col gemello Maik.

Il neonazismo aveva trovato un fertile terreno di coltura in Turingia e Sassonia, l’ex Germania Est, dopo la riunificazione, facendo valere che mentre tutto quello che era stato di sinistra era stato oppressivo, tutto quello che era di destra per contrasto doveva essere liberatorio. L’avvocato Gärtner originario della ex Germania est ha per contro osservato che non si può generalizzare che il neonazismo abbia trovato un terreno più fertile nei nuovi Länder e sia un problema solo dell’est, esso è stato ed è invece un problema di tutta la Germania. La schiera degli estremisti di destra è cresciuta in tutto il territorio nazionale, nel processo sono stati tematizzati incontri tra neonazisti di Chemnitz con altri di Ludwisburg o della Franconia. Non si deve credere che Beate Zschäpe, Uwe Mundlos ed Uwe Böhnhardt siano il vero volto della Turingia, bensì la 22enne defunta poliziotta Michèle Kiesewetter, anch’ella della DDR, che ha cercato di fare della sua vita qualcosa. Entrambe le interpretazioni ad un osservatore esterno paiono avere fondamento.

Il processo ha avuto il merito di riabilitare appieno le famiglie delle vittime, sottoposte ingiustamente per anni ai sospetti alimentati da indagini condotte a senso unico nel cercare un motivo degli omicidi in un coinvolgimento in attività criminali delle vittime, andando a cercarne le prove sino ai loro villaggi di origine in Turchia. Molti legali hanno additato il modo di procedere degli inquirenti come viziato da “razzismo istituzionale”. Un’accusa ingiusta nei confronti di molti poliziotti che hanno indagato con serietà, non si può porre tutti gli inquirenti sotto un sospetto generalizzato, ha affermato l’avvocato Stefan Gärtner in netto contrasto con taluni colleghi. Peraltro, l’avvocato Mehmet Daimagüler ha evidenziato come un poliziotto, che era stato impegnato nella valutazione di reperti trovati nel covo al quale Beate Zschäpe diede alle fiamme, abbia testimoniato confondendo ripetutamente islamico con islamista.

Più drastica l’avvocatessa Angela Wierig (rappresentava la sorella di Süleyman Taşköprü ucciso ad Amburgo nel 2001) che ha definito “irresponsabile” parlare di “razzismo istituzionale” e che anzi la “polizia di Amburgo ha indagato in tutte le direzioni”, aggiungendo ancora che il vero mentore dello NSU è stata Beate Zschäpe non Ralf Wohlleben che non dovrebbe essere condannato in base al riconoscimento dell’arma con cui sono stati commessi 9 delitti fatto dal coimputato Carsten Schultze, che ha ricostruito invece in modo credibile di aver comprato l’arma su specifica indicazione di Wohlleben. Fatto ammesso dallo stesso Wholleben, il quale però ha cercato di sostenere che non fosse l’arma usata per gli omicidi, azzardando addirittura un tentativo di riaprire la fase probatoria già chiusa. Ayşen Taşköprü si è sentita tradita per le esternazioni dell’avvocatessa Wierig, e le ha tolto il mandato. L’avvocatessa ha perso prestigio professionale, ma le è andata senz’altro meglio che al collega Ralph Willms che ha patrocinato per più di 230 udienze la signora Meral Keskin, una vittima dell’attentato di Colonia del tutto inesistente, vedendosi richiedere 211.252,54 euro -come ha scritto Wiebke Ramm sulla Süddeutsche Zeitung– dalla Corte di Appello di Monaco. Dall’Ottobre 2015 la Procura di Aquisgrana sta indagando con l’ipotesi di truffa. Willms ha sostenuto di aver pagato una provvigione ad una vittima dell’attentato, Attila Ö. (si omette il cognome perché le indagini sulla vicenda sono in corso e comunque egli è deceduto il 23 settembre 2017) che avrebbe fatto da tramite per fargli ottenere il mandato. Una simile condotta ha provocato accertamenti anche da parte dell’ordine degli avvocati perché è contraria alla deontologia professionale. Inoltre, il Ministero di giustizia ha avanzato la richiesta di rimborso di 5000 euro pagati alle vittime dell’attentato. Nel chiedere la concessione del riconoscimento come pare civile l’avvocato aveva indicato alla Corte d’Appello di Monaco di aver ricevuto il mandato in connessione ad un verbale di interrogatorio della Polizia che peraltro non esiste.

In effetti il processo ha ricostruito in modo credibile tutte le tappe dell’arma ed è difficile credere ad una irresponsabilità dell’imputato Wohlleben. A disegnarne oltre a tutto la caratura di pensiero: tra il suo abbigliamento una maglietta con la rampa di arrivo del lager di Auschwitz-Birkenau e la dicitura “Eisenbahnromantik” (ferrovia romantica) con cui, celia l’avvocato Adnan Erdal, il buon padre di famiglia andasse a dormire; nei suoi argomenti un inno al pluralismo etnico secondo il quale tutti i popoli hanno dignità di esistere purché solo a casa propria; ed ancora il tentativo di elevare la figura del gerarca nazista Rudolf Hess come paladino perché voleva salvare la Germania nazionalsocialista.

Neppure la critica alle indagini è scevra di fondamento, basti pensare alle tecniche di “racial profiling” che hanno indotto gli inquirenti a nominare le operazioni dopo l’attentato nella Keupstraβe, nel cuore del quartiere turco di Colonia, “Aktion Dönerspieß“ e “Dönermorde“ e non seguire mai la pista dell’estrema destra, tanto che l’allora Ministro degli Interni Otto Schily (SPD) subito dopo l’attentato parlò di “matrice criminale” ma non di razzismo. Un’affermazione che citando l’avvocato Stephan Kuhn per gli abitanti della strada fu come “una bomba dopo la bomba” ascrivibile questa però allo Stato tedesco, ma altrettanto capace di trasformare l’attentato in un successo operativo per lo NSU, anche se miracolosamente l’ordigno, nonostante la potenza, non uccise nessuno. Benché la prima analisi operativa del caso fatta dalla polizia criminale del Land avesse individuato una possibile motivazione razzista contro persone con provenienza turca o curda ed immaginato che i colpevoli fossero tedeschi, le indagini furono poi condotte esclusivamente contro gli abitanti della via impiegandovi anche agenti in borghese per mesi. Neppure il processo ha d’altronde saputo ricostruire nei familiari delle vittime la piena fiducia nello Stato, nonostante il rispetto per l’impegno dell’autorità giudiziaria, e le promesse ad una piena chiarezza fatte loro dalla Cancelliera Angela Merkel il 23 febbraio 2012. Lo hanno espresso diversi di loro personalmente così come attraverso i loro legali Forse qualcosa potrà ancora fare il tenore delle motivazioni della sentenza.

Arif S., uno dei colpiti dalla bomba nella Keupstraβe di Colonia, ad esempio, ha detto ai giudici “ai poliziotti ci facevano sempre le stesse domande ed io dissi che sapevo chi fossero i colpevoli, e quello mi chiese di dirglielo. Io risposi che erano dei neonazisti e quello cambiò l’espressione del volto portandosi l’indice davanti alla bocca e disse “psst”, a farmi segno di tacere, ed io sono stato zitto. Poi fui pedinato nel mio negozio e nel mio appartamento per 4 o 5 mesi di fila.”

Nonostante oltre 800 mezzi di prova il processo non ha saputo chiarire come sono state scelte le vittime e sono rimaste inutilizzate un’infinità di chance per individuare quanti ancora, quando e quanto sapevano dei crimini dello NSU e li ha aiutati. Così come quanto abbia saputo il Verfassungschutz, tenendo conto che sono stati individuati almeno 11 informatori dei servizi nella sfera del gruppo terroristico; tanto che l’avvocato Peer Stolle ha parlato di “uffici del Verfassungschutz che non hanno contrastato adeguatamente i rischi scaturenti dall’estrema destra, piuttosto vi hanno disteso la loro mano protettrice”. La prassi d’altronde, indica l’avvocato Mehmet Daimagüler (rappresentante legale di Dilek Özcan, l’unica figlia di ĺsmail Yaşar ucciso il 9 giugno 2005 nel suo punto di ristoro a Norimberga, ed avvocato dei cinque fratelli e sorelle di Abdurrhaim Özüdoğru, ucciso anch’egli a Norimberga, il 13 giugno 2001), non era nuova, già al principio degli anni Settanta quando il gruppo attorno al membro della NPD Paul Otte responsabile di due attentati in Bassa Sassonia e che creò una lista di 600 personaggi da colpire annoverava al suo interno l’informatore del Verfassungschutz del Land Hans-Dieter Lepzien. Il legale rincara: l’informatore Wolfgang Frenz, nome in codice Stoffel, disse che senza i fondi del Verfassungschutz non sarebbe stata fondata neanche la NPD in Nord-Reno Vestfalia. Per l’avvocato Stefan Gärtner invece che non si siano avuti segnali sulle attività del trio non è per colpa degli informatori, ma nonostante di essi, e non si può sminuire che il processo ha affrontato il problema con serietà e le diverse commissioni di inchiesta parlamentare non hanno raccolto risultanze diverse da quelle processuali. Né si deve tacere che la stampa stessa e non gli inquirenti coniò il termine Döner-Morde per gli omicidi fatti con la pistola Ceska 83.

È tuttavia rimasto del tutto insoddisfacente il mancato chiarimento del ruolo dell’agente dei servizi del Verfassungschutz della Assia Andreas Temme, responsabile del reclutamento degli informatori di estrema destra, che era nell’internet caffè di Kassel proprio mentre vi veniva ucciso Halit Yozgat. Temme ha affermato di non avere neanche visto la vittima riversa in una pozza di sangue; ma una ricostruzione filmata ha fatto apparire la circostanza del tutto poco credibile. Gli avvocati Alexander Kienzle e Doris Dierbach hanno cercato di evidenziarlo in diversi modi, hanno anche vanamente chiesto fosse ammessa come prova un’analisi fatta dal londinese Forensic Achitecture atta a dimostrare che Temme, tiratore sportivo, non potesse non aver colto gli spari. L’avvocato Kienzle ha messo in luce il ruolo poco chiaro del Verfassungschutz del Brandeburgo ed in particolare del reclutatore Rainer Görlitz, al quale la Corte sequestrò una cartelletta di documenti con i quali si era presentato a testimoniare; il passaggio di armi attraverso informatori dei servizi al trio, nonché di come l’ex Ministro degli interni dell’Assia Volker Bouffier abbia bloccato la visibilità degli atti su Andreas Temme e vietò che la polizia potesse interrogare la fonte che Andreas Temme aveva contattato il giorno dell’omicidio. L’avvocatessa Dierbach ha sottolineato che “il patto con gli informatori di estrema destra è un patto col diavolo”. E quanto fosse una poco credibile pantomima la versione propalata da Andreas Temme per l’avvocatessa Dierbach emerge dalle intercettazioni delle telefonate con il suo superiore che gli dice “di rimanere tanto vicino alla verità per quanto possibile” quasi un permesso a mentire, e poi indica “se io so che lì succede qualcosa, allora dico sempre, non andarci”. Temme chattava come “wildman 70” (uomo selvaggio 70) con una donna in un sito per appuntamenti, mentre la moglie era a casa incinta con suo figlio in grembo. Così assorto da non sentire gli spari che uccisero Halit Yozgat. Per la Corte però la versione di Andreas Temme, non potendo essere smentita senza ombre di dubbi, è da considerarsi credibile.

Per l’avvocato Sebastian Scharmer (difensore della figlia del ristoratore Mehmet Kubaşik ucciso a Dortmund il 4 aprile 2006) il dibattimento ha messo solo in parte in luce gli errori che hanno impedito di fermare prima i fuggiaschi, ma la tesi della procura mirante a porre sotto una campana per il formaggio gli imputati che avrebbero agito come un gruppo elitario totalmente diviso dal resto della scena di estrema destra, non è affatto congruente con i molteplici indizi emersi dell’esistenza di una rete ben più ampia dei cinque imputati ed i giudici dovrebbero essere sinceri e farlo emergere nella sentenza. Ad esempio, ha indicato l’avvocato Carsten Ilius a Dortmund tra il 2000 ed il 2005 c’erano stati già quattro omicidi per mano di neonazisti e secondo testimonianze attorno alla band di estrema destra Oidoxie si stava organizzando una cellula di Combat 18, il braccio armato dell’organizzazione vietata Blood & Honour. L’avvocato Björn Elberling che rappresenta un testimone della rapina ascritta al gruppo ad un supermercato di Chemnitz nel dicembre 1988, all’epoca 16enne, cui fu sparato contro per farlo desistere da un inseguimento, rincara la dose. Ci sono indizi che il neonazista in capo a Blood & Honour della Sassonia Jan Werner abbia fornito un’arma per l’assalto, da questo momento tutti coloro che aiutavano i fuggiaschi non potevano più ignorare che fossero armati e disposti a sparare. Non è un’affermazione di poco conto se si considera che il collega Yavuz Narin, rappresentante legale della signora Yvonne Boulgarides vedova del fabbro greco Theodorus Boulgarides ucciso a Monaco di Baviera, ultimo a presentare le proprie conclusioni, indica che Jan Werner (che è stato riportato essere stato informatore della polizia di Berlino tra il 2001 ed il 2005) possa essere stato anche un informatore dei servizi del Verfassungschutz arruolato addirittura con il placet della Procura Generale e contro i dubbi avanzati dalla polizia (https://www.youtube.com/watch?v=Rfvi1yciWQM). Mentre i documenti su Werner sono stati distrutti dagli archivi del Verfassungschutz per decorso del tempo, (come ha indicato il capo del Verfassungschutz della Sassonia Gordian Meyer-Plath in risposta ad una richiesta di accesso agli atti nell’ottobre 2016, pur non chiarendo tuttavia come mai fossero rimaste notizie su singoli SMS) ed anche dagli archivi della Procura Generale, nonostante una moratoria del Ministero degli Interni; nelle ceneri dell’ultimo covo dello NSU sono emerse le copie del suo interrogatorio del 17 gennaio 2002 nel procedimento Landser, una band di musica neonazista, in cui Jan Werner fu indagato e del quale non è chiaro come ed a che titolo i terroristi fossero in possesso. Esiste poi un messaggio del 1998 dell’informatore Carsten Szczepanski, alias Piatto (il cui conduttore nei servizi era stato proprio Gordian Meyer-Plath) a Jan Werner in cui il primo chiede al secondo, evidentemente incaricato di procurare delle armi allo NSU per delle rapine, “cosa ne è dei bum?”. Szczepanski d’altronde, indica l’avvocato Daimagüler, nel 1991 era indagato per costituzione di un gruppo terroristico per il sospetto di avere fondato un ramo tedesco dell’americano Ku-Klux Klan. Tracce del KKK emergono anche nel caso Kiesewetter, il superiore diretto della poliziotta è emerso esserne un simpatizzante assieme ad un altro collega. Per l’avvocatessa Antonia von der Behrens il Verfassungschutz fin dal 1990 conosceva i rischi della destra militante tanto da averla infiltrata, ma poi non ha trasmesso le sue analisi alla polizia criminale; per coprire la propria rete di infiltrati ha finito per favorire, anziché impedire, la nascita dello NSU. Per la legale si deve ritenere che ci vorranno decenni perché sia fatta piena chiarezza dei crimini avvenuti con il coinvolgimento dello Stato. Le parti civili nel dibattimento non hanno mai avuto un potere paragonabile a quello statale. Una tesi che ascrive al Verfassungschutz non solo l’evidente impegno nel non rivelare le sue fonti pregiudicando le indagini di polizia, ma un vero e proprio anelito cospirativo anche in sede processuale. Per l’avvocatessa sono necessari whistle blower o dei leak di informazioni dall’interno dei servizi. Anche se è stato formalmente indagato, neppure l’agente del Verfassungschutz dal nome in codice Lothar Linger, che distrusse in modo illegale interi incartamenti relativi ad informatori di estrema destra, è mai stato perseguito, ha soggiunto l’avvocato Mehmet Daimagüler. Come cittadino di origini turche egli stesso appare immedesimarsi, forse pure più di altri colleghi, nel suo ruolo, legge per primo la sua comparsa conclusionale salendo sul gradino a fianco del banco della Procura e cerca di toccare tutti i punti dell’accusa, anche quelli che non riguardano direttamente il suo mandante venendo interrotto più volte dalle difese. L’anziano avvocato Michael Kaiser riesce ad imporgli di non esprimere una richiesta di pena per il suo mandante André Eminger; si sa che l’avvocato Daimagüler avrebbe voluto chiedere una pena superiore a quella domandata dall’accusa indicando che non sia stato solo un fiancheggiatore bensì un membro paritetico egli stesso del gruppo terroristico, che visitava regolarmente mentre era in clandestinità. Ed anche l’avvocato Eberhard Reinecke (che con il collega Reinhard Schön rappresenta sette persone colpite dall’esplosione nella Keupstraβe di Colonia) confrontando le esternazioni di Beate Zschäpe con le testimonianze raccolte ha  apertamente inferito che sia André Eminger che sua moglie S. potrebbero aver avuto un ruolo maggiore di quanto si sia potuto provare.

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Anche l’avvocato Yavuz Narin, uno tra i più impegnati nel processo che ha condotto anche indagini autonome (tra l’altro un teste di estrema destra alla sbarra rispondendo alle sue domande, aveva infierito che il legale avrebbe fatto la doccia a casa sua, ed in effetti in quel periodo l’avvocato Narin aveva adottato un taglio da skinhead), ha smentito la tesi che Clandestinità nazionalsocialista fosse solo un trio. Ricordando la testimonianza del poliziotto in pensione Frank Johannes Gr. che riconobbe Beate Zschäpe mentre con Uwe Mundlos e molto probabilmente il citato Jan Werner ed una donna con due bambini, forse Annett W. (madre dei figli del capo di Blood & Honour in Germania Stefan L., emerso essere stato informatore del Verfassungschutz dal 2002 al 2010 con il nome Pinocchio), osservavano la sinagoga di Rykestrasse a Berlino. Il tempio israelitico era uno dei possibili obiettivi da colpire indicati in un lungo elenco rinvenuto tra i resti dell’ultimo covo dei terroristi. Che il gruppo godesse di appoggi emerge anche, come ha ricordato l’avvocatessa Gül Pinar (legale di Aynur Tasköprü, la sorella di Süleyman Tasköprü trucidato il 27 giugno 2001), nell’annuncio pubblicato sulla fanzine Weiβe Wolf nel fascicolo 1/2002 “grazie allo NSU; ha portato i suoi frutti; la lotta continua …” e nel CD dato dall’informatore Corelli, alias Thomas Richter (un componente della Kamerdaschaft Nationalen Front che -come ha indicato l’avvocato Mehmet Daimagüler – fu altresì uomo di contatto tra Blood & Honour, KKK e NSU, e per quasi vent’anni pure confidente dei servizi e che decedette per un diabete mai diagnosticato) al Verfassungschtutz nel 2006 costituente “la prima raccolta di immagini del Nationalsozialistischer Untergrund della NSDAP (NSU)”. Ma ci sono anche altre circostanze come un SMS del 15 settembre 2000 firmato Ralf -per l’avvocatessa Pinar Ralf Wohlleben- spedito al trio di terroristi il giorno successivo il divieto di Blood & Honour ad Amburgo, a confermare quanto fosse importante tutto il sostegno di quel circuito per la cellula dello NSU. Per Narin la Procura Generale ha fatto un ottimo lavoro nel redigere l’atto di accusa, ma non ha poi mostrato adeguata solerzia nell’individuare e perseguire tutti i responsabili. Anche l’avvocato e professore Bernd Max Behnke (rappresenta il fratello di Mehmet Turgut ucciso a Rostock il 25 febbraio 2004) ha indicato che raramente ha potuto ascoltare delle conclusioni di accusa così consistenti e convincenti e che sul banco degli accusati siede senz’altro la cerchia più stretta dei colpevoli, al biasimo rivolto alla Procura Generale di avere fatto un lavoro incompleto ha controbattuto che ci si deve senz’altro aspettare altri processi contro altri sospetti già inclusi in altre indagini. Tuttavia, la stessa procuratrice Annette Greger ha ammesso, fuori udienza, che in alcuni casi scatteranno ormai delle prescrizioni.

Durante il processo sono stati escussi diversi neonazisti, forti in gruppo, alla sbarra non ce l’avevano più con gli stranieri, apparivano tutti quasi operatori sociali o ambientalisti, ha irriso l’avvocato Serkan Alkan, che rappresenta uno dei feriti dell’attentato del 2004 nella Keupstrasse di Colonia, sottolineando anch’egli che non si sia fatta piena chiarezza su quanti hanno composto la rete terroristica. Il ferito principale di quell’attentato – fu investito in pieno dalla detonazione- Sandro D’Alauro, padre italiano, a quasi 14 anni dall’esplosione rischia di doversi sottoporre ancora ad un intervento per i danni provocatigli dai chiodi scagliati dall’ordigno nelle sue ossa.

Abdulkerim Simsek, figlio di Enver Simsek (la prima vittima della serie di omicidi con la pistola Ceska 83, ferito a morte il 9 settembre 2000 e fotografato mentre era moribondo), rivolgendosi formalmente ai giudici, ma diretto agli imputati, ha portato l’essenza del processo al punto “Quanto è malato, uccidere una persona con otto colpi solo per le sue origini od il colore della sua pelle? Cosa vi ha fatto mio padre? Capite cosa significa vedere il proprio padre moribondo in una video rivendicazione e sapere che giacque lì senza aiuto per ore?”. Enver Simsek giacque a lungo straziato nel suo furgone, Abdulkerim aveva 13 anni quando accorse al capezzale del padre e gli vide l’occhio martoriato e contò i sei buchi lasciatigli dai proiettili. Racconta ai magistrati “non volevo andare via, volevo difendere mio padre”. La sua legale Seda Basay-Yildiz addita il pregiudizio che colpì la famiglia delineandolo in modo semplice, mentre gli agenti comunicarono alla madre della poliziotta Michèle Kisesewetter l’assassinio della figlia facendosi accompagnare da un parroco e aspettarono poi dieci giorni per interrogarla a casa sua, ad Adile Simsek, la moglie del commerciante di origini turche fu invece impedito persino di restare col marito morente in ospedale e fu subito obbligata a rispondere agli inquirenti in commissariato, gli agenti volevano sapere se il marito avesse traffici illeciti o un’amante. Adile Simsek si presenta con un cappotto lungo ed il foulard tipici delle anziane donne turche, un’apparenza dimessa che indusse gli inquirenti a trattarla come sospetta anziché parte lesa. Nessuno, dice l’avvocato Seda Basay-Yildiz si è mai scusato con lei per quel trattamento. Le uniche scuse sono venute dall’imputato Carsten Schultze. Abdulkerim Simsek dice di accettarle. Il bimbo 13enne accompagnò la salma del padre per il funerale in Turchia, avvolta solo in un telo bianco, stette in piedi dal lato del capo e vide che il lenzuolo si era tinto di rosso, solo allora pianse. Fino al 2011, quando si scoprì l’esistenza dello NSU Abdulkerim Simsek dice che non raccontò mai di come fu assassinato il padre, ma ci furono momenti in cui gli mancò molto, oggi Enver Simsek avrebbe avuto 56 anni ed avrebbero potuto ancora condividere molte cose.

Tranchant l’avvocato Narin ha ricordato testimoni senza spina dorsale, investigatori definiti lapidariamente colpevoli da scrivania, vittime auto-dichiarate. Anche la vedova del fabbro greco, Yvonne Boulgarides, ha additato la mancata volontà di fare piena chiarezza ed assicurando che non smetterà di fare domande per conoscere tutta la verità anche dopo la sentenza. Sua figlia perse il padre ad appena dodici anni e la famiglia fu sospettata dagli inquirenti di essere coinvolta in traffici illeciti. All’odio razziale di estrema destra non si pensò, anche se si assicurò che si stava indagando in tutte le direzioni. Agli occhi della signora Boulgarides tutto il processo è apparso come “un’operazione di pulizia superficiale” anche se ha speso una parola in favore dell’imputato Carsten Schultze, l’unico ad avere fatto una confessione piena, rivelando anche dettagli a suo carico non ancora noti agli inquirenti, e che ha dimostrato pentimento. Yvonne Boulgarides ha rivelato di aver avuto un colloquio con lui, insieme alle sue figlie, e lo ha definito “il momento più difficile e più emotivo della loro vita” con l’imputato in lacrime che non si potevano fingere.

Molti dubbi rimangono effettivamente aperti nonostante della vicenda si siano occupati pure una dozzina di commissioni di inchiesta parlamentari sia a livello federale che statale. Come mai alcuni informatori dei servizi del Verfassungsschutz sono stati lasciati emigrare ed i loro incartamenti sono stati distrutti? Perché si sono arenate subito le indagini scaturite da testimonianze che avrebbero potuto suggerire di cercare i colpevoli anche nell’estrema destra? Come sono arrivati i colpevoli a scegliere le loro vittime? Ci sono stati altri coadiutori locali? L‘avvocato Daimagüler ha evidenziato che i terroristi avevano realizzato al pc una directory dal nome Killer con una lista di 10.000 possibili obiettivi, ma mentre qualcuno potrebbe essere stato facilmente individuabile, altri non erano niente affatto di immediata giustificazione. Ad esempio, il procuratore della sua città, Siegen, oppure un medico non specialista, od uno sconosciuto avvocato di Francoforte? Le circostanze in cui alcuni testimoni sono deceduti per malattie mai diagnosticate danno anch’esse aggio ad alimentare sospetti, che però non possono venire assolutamente comprovati. Il settimanale Stern nel frattempo in un articolo del 18 gennaio 2018 lancia inquietanti interrogativi sulla matrice di altri tre attentati a cittadini stranieri perpetrati tra il 1992 ed il 1993 e ventila il possibile coinvolgimento diretto in un quarto, una bomba detonata nel 2001 nel negozio della famiglia di origini iraniane M., di un infiltrato dei servizi interni del Verfassungsschutz Johann H. Tesi quest’ultima rimasta però senza il conforto di prove certe.

Il Procuratore Generale Herbert Diemer ha definito la caparbietà delle parti civili “Fliegengesumme” (ronzio di mosche) e la collega Annette Greger ha adombrato che le parti civili avrebbero promesso ai loro danti causa di trovare dei mandanti nascosti. I legali di parte civile non hanno accolto con indifferenza queste accuse. L’avvocato Edith Lunnebach (che rappresenta la famiglia di origini iraniane M. nel cui negozio nella Probsteigasse a Colonia scoppiò una bomba contenuta nella scatole di un dolce natalizio), ad esempio, ha qualificato l’affermazione come “senza ritegno, l’uso di tale definizione mostra il modo di pensare: discreditare l’onesto approccio delle parti lese ed i loro rappresentanti”; “ho riconosciuto la veloce sussunzione di un atto di accusa già un anno dopo la scoperta dello NSU partendo dall’alacre lavoro di molti funzionari di polizia criminale … nello sguardo a ritroso del processo allo NSU però il vostro apporto sarà ricondotto a quello di un freno”. Fisicamente molto rassomigliante alla regista Lina Wertmüller, toni pacati quanto giudizi taglienti, l’avvocato Lunnebach ha dichiarato all’indirizzo del pubblico ministero “non so perché la Procura Generale si dica soddisfatta con la semplice risposta di ascrivere tutti i crimini ad un trio isolato, tanto più che non posso riconoscere che i portavoce dell’accusa siano incapaci di giudizio o manchino di intelligenza”. E dopo aver descritto ancora una volta le modalità dell’attentato e le conseguenze per la famiglia M. ha indicato gli elementi che escluderebbero che esso sia stato perpetrato senza appoggi locali. Innanzitutto, la via dove è avvenuto non è una grossa arteria conosciuta, in secondo luogo il negozio aveva insegna ancora intestata a nome del vecchio proprietario tedesco, in terzo luogo l’identikit dell’uomo che ha portato la latta nel negozio non corrisponde con i volti dei componenti del trio o degli altri imputati. Poi le indagini furono affidate alla squadra competente per le esplosioni ma non a quella omicidi più ricca in organico, non si fece una comunicazione nazionale del crimine ma solo nel Land, soprattutto non si ricercò nello spettro dell’estrema destra. Nel 2006 infine la Procura di Colonia diede il via libera alla distruzione degli atti. Si specula, ma non è provato, che il luogo dell’attentato fosse stato scelto perché vicino a dove morì il nazista Walter Spangenberg.

La Procura Generale si è infatti sistematicamente opposta a molte istanze probatorie delle parti civili perché il processo ha il compito di chiarire le responsabilità solo dei cinque imputati alla sbarra, indagini più ampie spettano piuttosto alle commissioni di inchiesta parlamentari. L’avvocatessa Antonia von der Behrens ha censurato questa lettura, affermando che per la valutazione penale dell’associazione terroristica fosse rilevante stabilire anche le dimensioni della sua rete così come per la giurisprudenza della Corte per i diritti dell’uomo di Strasburgo si debba chiarire anche il grado di conoscenze dello Stato. L’avvocato Sebastian Scharmer d’altronde ha sussunto così l’intero quadro emerso dal processo “Chiunque può percepire che la cosa puzza anche se non sa dire da cosa e perché. Volevamo scoprirlo ma abbiamo fallito in diversi punti. Il puzzo resta”. La richiesta di fare piena chiarezza non deve ammutirsi neppure dopo il processo, auspica la collega von der Behrens, in fondo per la riapertura delle indagini relativamente alla strage dell’Oktoberfest del 1980 ci sono voluti 34 anni.
L’unica speranza è che Beate Zschäpe, vista alla fine la mala parata di una condanna all’ergastolo seguita da un’attestazione di pericolosità sociale che permette di procrastinare la pena anche successivamente, si decida a svuotare il sacco. Diversi gli appelli, per ora rimasti tutti inascoltati. Il più pressante quello di Gamze Kubasik (la figlia di Mehmet Kubasik) che se Zschäpe si deciderà a farsi carico delle sue responsabilità e farà i nomi di tutti coloro che sono mancati sul banco degli imputati, si impegnerà per intervenire innanzi ai giudici di sorveglianza e farle ridurre la pena. Per l’avvocato Markus Goldbach (legale di Javuz Sentürk, una delle persone colpite dall’attentato della Keupstraβe di Colonia) non è d’altronde considerabile veramente una persona forte, e non sarà in grado di rispondere da sola ad alcuna domanda. È piuttosto segnata da un vuoto interiore che spaventa.

Non ci sono però prove certe che possano connettere Beate Zschäpe con l’esecuzione degli omicidi, poche le testimonianze che possono veramente ricondurla anche solo negli stessi luoghi dove essi sono avvenuti: una foto la indica con i complici in un appartamento a Norimberga, una teste Andrea Cazare ha riferito di essere convinta di averla vista in un supermercato vicino al punto di ristoro di ĺsmail Yaşar, la più importante quella dell’ex poliziotto Frank Gr. che alla 317ma udienza ha testimoniato di averla riconosciuta con sicurezza fuori dalla sinagoga di Rykestrasse a Berlino. Ed al quadro si può aggiungere la partecipazione nella fabbricazione del gioco “Pogromly”, un Monopoly antisemita, di cui hanno riferito anche molti quotidiani italiani.

Nei piani della Corte a fine febbraio si dovrà decidere se separare il giudizio sulla restituzione dei beni sequestrati, in buona sostanza il denaro frutto delle rapine rinvenuto, pc ed altro degli imputati. A questo si aggiungerà la decisione sulla domanda presentata dall’avvocato Adnan Erdal di levare il crocefisso al momento della lettura del verdetto. Il legale avrebbe già voluta presentarla all’avvio del dibattimento indicando che la maggior parte delle vittime sono state mussulmane, ma vi fu caldamente sconsigliato da colleghi. L’iniziativa rischia di inimicarsi gran parte dell’opinione pubblica, tanto più che non tutte le vittime dello NSU erano turche. Annette Ramelsberger sulla Süddeutsche Zeitung ha osservato che così si risalta che gli assassinati non erano come gli altri cittadini; Gisela Friedrichsen di WeltN24 rimarca che i neonazisti semmai seguono la mitologia germanica e la religione non è mai stata un tema del processo. Entrambe hanno senz’altro ragione, ancorché sia ben possibile che l’accanimento su cittadini di origini turche abbia avuto radice anche per la loro religione, volendo alimentare simpatie nell’opinione pubblica già sensibile al terrorismo islamico; così come è condivisibile l’idea della neutralità dello Stato rispetto alla religione. Nondimeno nella tradizionalista Baviera ed alla fine del processo, considerando poi che almeno due degli uccisi non erano affatto mussulmani, l’iniziativa dell’avvocato Erdal, che nel corso del dibattimento non ha fatto molti interventi efficaci, non appare giustificata.

Quindi, a metà marzo, dovrebbe toccare alle difese di presentare le proprie conclusioni. Per primi gli avvocati di fiducia di Beate Zschäpe, seguiti poi dai suoi difensori originari che hanno già detto che intendono ascoltare bene cosa diranno i colleghi e chiesto di avere almeno una settimana dopo di loro per prepararsi. Poi via via gli avvocati degli altri imputati che hanno tutti indicato che prevedono di aver ciascuno bisogno solo di un giorno per le proprie conclusioni. Se questo ritmo spedito dovesse essere tenuto la sentenza potrebbe essere pronunciata prima dell’estate; anche se la Corte ha fatto pervenire prudenzialmente un calendario delle udienze fino al 10 gennaio 2019.

Qualsiasi vita umana ha pari valore. Ogni essere umano uguale dignità. In Italia ci saranno state le elezioni e magari avranno premiato quelle forze politiche che soffiano sul malcontento per l’alto numero di immigrati. Allora forse anche i media nazionali italiani si accorgeranno improvvisamente del valore epocale del processo per i crimini del gruppo Clandestinità nazionalsocialista e manderanno i loro corrispondenti.

 

 

Immagine di copertina: manifesto in una stazione della metropolitana di Monaco di Baviera, foto dell’autore

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