Giustizia
Politica e ipocrisia: il caso della legalizzazione delle droghe leggere
Di tanto in tanto in Italia si chiacchiera pubblicamente di legalizzazione delle droghe leggere. La legge che oggi disciplina stupefacenti e sostanze psicotrope è stata riportata, dopo rocambolesche vicissitudini giuridiche, alle norme del d.p.r. 309/1990, meglio conosciuto come Testo unico stupefacenti. Il tema di una possibile riforma in questa materia, come in tante altre, è da sempre un buon pretesto per raccontare falsità e lanciare spot elettorali. In particolar modo, esso rende manifesta una componente saliente della cultura politica italiana: l’ipocrisia di una classe dirigente di qualità assai modesta. Ecco tre esempi paradigmatici:
La proposta, risalente alla passata legislatura, del M5S era quella di consentire la coltivazione domestica di quattro piante: il provvedimento modificava la disciplina sanzionatoria penale della produzione, del traffico di cannabis e dell’associazione finalizzata al traffico di stupefacenti. I proponenti la definirono, né più né meno, «una svolta storica» per la nostra nazione.
Con il nuovo governo sono state elaborate altre due proposte. La prima ha come promotori Verdi e Sinistra Italiana e prevede il monopolio di stato per «la coltivazione, la lavorazione, l’introduzione, l’importazione e la vendita» dei derivati della cannabis. I fautori di questa proposta di legge spiegano che «toglieranno più di 6 miliardi dalle tasche delle mafie».
La seconda proposta, che vede come protagonista il Sen. Gasparri, riguarda alcune modifiche aventi a oggetto la legge 242/2016, ossia una norma di inquadramento per agricoltori e produttori del settore canapicolo. Tali modifiche prevedono che siano «vietati la vendita e l’utilizzo delle infiorescenze di canapa per uso umano». L’esperto senatore ci assicura che in Italia «non verrà mai liberalizzata una droga» e che egli in persona non concederà mai «la libertà di drogarsi».
Non mi interessa discutere la povertà intellettuale celata dietro questi grandi proclami mossi da un intento unicamente propagandistico, poiché si tratta di interventi che, qualora venissero attuati, nulla modificherebbero nella pratica. Piuttosto, desidero evidenziare l’aspetto che considero maggiormente grave e inquietante: la totale noncuranza – da parte di chi detiene il potere – verso ogni proposta di cambiamento proveniente dalla società civile organizzata.
L’atteggiamento che meglio caratterizza una classe politica altamente ipocrita è quello di fingere di ascoltare le proposte politiche elaborate dalla cittadinanza per poi, nel concreto, ignorarle. Per limitare questo disagio democratico si è pensato di riformare – ma, nei fatti, creare – il cosiddetto terzo settore. Le linee guida che ordinano la riforma si propongono «di costruire un nuovo welfare partecipativo, fondato su una governance sociale allargata alla partecipazione dei singoli, dei corpi intermedi al processo decisionale e attuativo delle politiche sociali, al fine di […] ricomporre il rapporto tra Stato e cittadini, tra pubblico e privato». Non è certamente un caso se, dal 2017 a oggi, non sono stati ancora pensati meccanismi normativi atti a incentivare la creazione di gruppi di interesse organizzati e capaci di intermediare tra interessi collettivi e decisioni politiche. Inoltre, in numerosi sondaggi i protagonisti del terzo settore lamentano una deriva burocratica, la perdita di «senso politico» della propria azione e una mancata evoluzione della pubblica amministrazione dalla «cultura dei bandi» a quella della co-progettazione, come richiesto dalla nuova normativa e dalla sentenza della Corte cost. 131/2020.
Che fare? Direbbe un vecchio compagno…
Nonostante il disinteresse del potere, la situazione nel nostro paese è la seguente: la cannabis è la sostanza più venduta sul mercato illegale; un terzo degli studenti delle scuole superiori dichiara di averla utilizzata almeno una volta e per oltre la metà di questi l’età di iniziazione è intorno ai 15-16 anni; sono circa 150.000 gli studenti tra i 15 e i 19 anni che potrebbero necessitare di un sostegno clinico. Inoltre, la cannabis è una sostanza pericolosa poiché viene alterata chimicamente allo scopo di raggiungere alte percentuali di THC, un principio psicoattivo che, se assunto con assiduità, risulta dannoso per la salute psichica.
Sulla base di un sano pragmatismo si dovrebbe abrogare totalmente il Testo unico e proporre una legislazione che non fallisca i medesimi obiettivi: la tutela della salute individuale, di quella pubblica, la repressione del narcotraffico e della criminalità ad esso legata. I partiti politici dovrebbero aprire un dibattito pubblico, ascoltare le istanze della società civile ed emanare un nuovo Testo unico stupefacenti in grado di soddisfarne i propositi. La nuova disciplina toccherebbe fatalmente alcuni ambiti delicati della vita sociale: i problemi di carattere sanitario; le questioni riguardanti la criminalità e la sicurezza; quelle relative allo snellimento delle carceri; gli inevitabili risvolti economici per il settore canapicolo; la necessità di parlare di droghe alle giovani generazioni con competenza e senza pregiudizi. A partire da questo complesso groviglio di questioni dovrebbe nascere un onesto e costruttivo confronto che avesse quali argomenti principali: le modalità entro le quali inserire la cannabis e i suoi derivati nel mercato legale; i possibili livelli di legalizzazione o depenalizzazione per ciò che concerne la vendita e il consumo a scopo ludico; le condizioni secondo le quali permettere la coltivazione privata; quali siano le strategie economico-produttive in grado di soddisfare le esigenze di cannabis a scopo terapeutico da parte del SSN. L’ipotetica nuova disciplina, vista la sua complessità, sarebbe da considerarsi sperimentale, senza inutili pretese rivoluzionarie.
È con profonda tristezza che occorre constatare come una classe politica altamente incompetente ed ipocrita non possa – o non voglia – uscire allo scoperto per ragionare con mente pura su questo dominio. Non a caso i partiti politici perseverano nel mantenere quell’approccio proibizionista e repressivo che, alla prova dei fatti, si è sempre rivelato fallimentare. Tutt’al più propongono tartufesche correzioni alla legislazione attuale. Contestualmente, non hanno alcun interesse a dar voce agli sforzi di una componente sempre più alta di società civile impegnata nella sensibilizzazione della cittadinanza e dei decisori politici sulla possibilità di riformare una legislazione in grado di governare un fenomeno sociale che interessa più di 6 milioni di cittadini.
La politica italiana continua a vivere sul terreno melmoso di un’eterna campagna elettorale e a non contemplare la componente costruttiva del proprio lavoro, quella nella quale sono decisive competenza e onestà intellettuale. In tal modo, con atteggiamento intollerabilmente tronfio, si fa beffe dei cittadini. Preferisce una strizzata d’occhio agli istinti delle masse piuttosto che pensare a come garantire gli interessi delle minoranze. Istituzionalizza l’ipocrisia come atteggiamento politico dominante. Nemmeno il principe Fabrizio Salina riuscì a concepire ed accettare un cambiamento, figuriamoci l’odierna classe di ipocriti.
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