Giustizia
Paolo Borsellino, la verità negata
Casa Professa, la biblioteca comunale di Palermo è, di fatto, un luogo della memoria. Non solo luogo di memoria ma stazione di quella via crucis che visse Paolo Borsellino nei 57 giorni che separano la strage di Capaci dalla strage in cui il magistrato perse la vita assieme a Emanuela Loi, Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli e Claudio Traina. A Casa Professa, il 25 giugno 1992, Paolo Borsellino lancio il suo j’accuse e tenne il suo ultimo intervento pubblico in cui disse «La sensazione di trovarmi in estremo pericolo, non si disgiunge dal fatto che io creda ancora profondamente nel lavoro che faccio, so che è necessario che io continui a farlo».
Proprio in questo luogo ieri, 18 luglio, si è tenuta la conferenza stampa che ha preceduto la presentazione del libro “Paolo Borsellino. 1992… La verità negata” di Umberto Lucentini. Si è trattato di una conferenza stampa e della presentazione di un libro che hanno avuto, come compito primario, quello di fare memoria di Paolo Borsellino a partire proprio dalle ultime notizie di cronaca, ossia dalla recentissima sentenza riguardante il depistaggio, un tema ancora aperto e che merita di essere approfondito. Nessuno meglio dell’avvocato Fabio Trizzino, che da anni segue i processi relativi alla strage di via d’Amelio, è oggi in grado di mettere nero su bianco le contraddizioni che ci hanno portato, a trent’anni dalla strage, a un nulla di fatto o poco più. Verità negata, recita il titolo del libro di Lucentini e proprio di verità negate ha parlato Fabio Trizzino.
Il tentativo a livello giudiziario della ricostruzione della strage di via d’Amelio – ha detto l’avvocato Fabio Trizzino – si può definire, in maniera quasi riduttiva, molto accidentato. Si tratta, sicuramente, di una pagina non gloriosa non tanto per la magistratura come istituzione ma per quei magistrati che si sono imbattuti, per funzione e per tempo, nella difficile opera di ricostruzione delle vicende che hanno preceduto e accompagnato la strage di via d’Amelio. Non è sicuramente una pagina in cui la magistratura, intesa nei suoi uomini con il ruolo sia di pubblici ministeri sia di giudicanti concretamente individuabili, ha brillato.
Questo depistaggio, a mio giudizio, con l’apporto decisivo in termini di professionalità e applicazione del “metodo Falcone-Borsellino”, non avrebbe potuto assolutamente avere successo.
La storia del nostro paese è, sicuramente, una storia ricca di depistaggi e misteri ma il depistaggio che ha riguardato la strage di via d’Amelio si caratterizza per alcuni elementi che a mio giudizio vanno valorizzati. Innanzitutto l’improponibilità della presenza sulla scena, per quanto riguarda il Borsellino Uno e Bis, di soggetti che invece sono stati ritenuti non solo attendibili ma ontologicamente qualificati a far parte di quella potentissima organizzazione che è Cosa nostra.
C’è stato qualcuno che, ad onta di ogni dato precedentemente acquisto e frutto dell’incredibile lavoro del pool di Chinnici con Falcone, Borsellino e altri, ha ritenuto plausibile che un uomo come Scarantino o come Candura potesse essere, in qualche modo, destinatario di un qualsivoglia incarico nell’organizzazione di una delle stragi più devastanti della storia repubblicana.
Si è trattato di un depistaggio grossolano
Si è trattato di un depistaggio assolutamente grossolano che avrebbe potuto in qualche modo essere sventato immediatamente, ma ciò non è stato fatto, e che ha visto, altro elemento che ha differenziato il depistaggio di via d’Amelio da tutti gli altri depistaggi, gli avvocati degli imputati, definiti allora “avvocati dei mafiosi”, in grado di smascherarlo immediatamente salvo non essere ascoltati. Al di là di quello che abbiamo scoperto essere stata un’importantissima dialettica all’interno dell’ufficio che, lo voglio ricordare, non fu monolitico in relazione all’attendibilità di Scarantino, abbiamo assistito di fatto ad una spaccatura formale della Procura con Bocassini e Saieva da una parte e dall’altra Tinebra, fondamentalmente Petralia e successivamente Di Matteo. In questi anni siamo riusciti a ricostruire il clima tremendo che c’era all’interno dalla Procura e che, nonostante i warnings che arrivarono proprio dagli avvocati degli imputati, si è andati avanti fino a quando non arrivarono le dichiarazioni di Spatuzza che ci consegnò una diversa versione.
Si è compiuto il ciclo delle verità processuali
Questo rimanda a un concetto che vorrei affrontare una volta per tutte. La famiglia Borsellino ritiene che, con la sentenza dello scorso 12 luglio del processo “Depistaggio” i cui Giudici a latere, notate bene, all’epoca dei fatti avevano tre o quattro anni, e questo dimostra la mostruosità del ritardo della risposta punitiva dello Stato, si sia compiuto il ciclo delle verità processuali. Cadendo l’aggravante di mafia il reato è prescritto ma è bene sapere che, anche in presenza dell’aggravante, la prescrizione sarebbe scattata nel 2025, a dimostrazione che, forse, non si sarebbe riusciti ad arrivare in Cassazione e che, quindi, il reato sarebbe comunque risultato prescritto.
Guardiamo con attenzione e favore a quanto, in stretto coordinamento con la Direzione Nazionale Antimafia, la Procura della Repubblica di Caltanissetta ha intenzione di fare ma, a questo punto, la preghiamo, come familiari, di riuscire a portare a processo un mandante o altri esecutori materiali della strage, rispetto ai quali sappiamo esserci l’imprescrittibilità del reato, quindi imputandoli per strage, ma non di generare altri procedimenti per attività di partecipazione, concorrenza esterna o favoreggiamenti perché rappresenterebbero un inutile stillicidio di sentimenti ed emozioni, perché ogni dibattimento è una costante rievocazione di quella che io chiamo la “via crucis” di Paolo Borsellino, specialmente se ci concentriamo su quei 57 giorni e su quanto, proprio in quei 57 giorni, è stato scoperto e rivelato.
Le audizioni al Csm del luglio 1992
Nei giorni scorsi il Csm ha dato notizia che saranno, finalmente, disponibili i verbali delle audizioni del luglio 1992 in cui vennero sentiti diversi magistrati applicati alla Procura di Palermo. Si tratta di quelle audizioni che il Csm dovette fare a seguito, caso unico nella storia giudiziaria italiana, a un atto di ribellione di otto magistrati nei confronti dell’allora Procuratore della Repubblica di Palermo Pietro Giammanco. In realtà si trattava di un atto di ribellione in cui si faceva riferimento alle precarie misure di sicurezza personale per gli appartenenti all’ufficio della Procura e che, solo nello sfondo, lamentava difficoltà gestionali dell’ufficio. Di fatto, e le audizioni lo dimostrano, Giammanco è considerato un ottimo gestore e organizzatore del lavoro ma, proprio leggendo quelle audizioni, si può percepire perché Paolo Borsellino venne contrastato e del perché non gli fu riconosciuta subito la delega a indagare su Palermo perché, in quel modo, gli sarebbe stata data la possibilità di indagare sul fronte del rapporto mafia-appalti. E proprio dalla lettura di quelle audizioni e di questo dato che risulta più che mai strana la telefonata che Giammanco fece, alle 7:15 del 19 luglio, a Paolo Borsellino ritenendo risolta la problematica e questo lo dice, durante la requisitoria del Borsellino Bis, il sostituto procuratore generale Dolcino Favi quando affermò che «io non voglio dire che Giammanco sapesse della morte di Borsellino ma, quella telefonata, è strana», anche per la mancanza di rapporti tra i due che si erano creati a seguito della mancata informazione relativamente all’arrivo a Palermo del tritolo.
I magistrati che vanno sempre in televisione e scrivono libri, in realtà, lo possono fare perché non lavorano
Dal nostro punto di vita, la verità processuale sulla strage di via d’Amelio è compromessa anche in considerazione del danno prodotto dal depistaggio. In questi anni ho visto e sentito critiche ingenerose nei confronti della Procura di Caltanissetta gestita da Sergio Lari, ho visto e sentito critiche ingenerose nei confronti di Stefano Luciani, un magistrato di una bravura eccezionale, un magistrato che non va in televisione e non scrive libri perché lavora. Chi va in televisione e scrive libri, in realtà, lo può fare perché non lavora.
Il Borsellino Uno e Bis sono stati, di fatto, due procedimenti disastrosi, una sorta di crollo delle torri gemelli e allora criticare chi, dalla macerie di quelle due torri, ha dovuto ricostruire tutto restituendo inoltre credibilità a quella stessa istituzione magistratuale fortemente compromessa da chi, quelle torri gemelle, le ha fatte cadere. Per costruire su quelle macerie la Procura di Lari ha dovuto sottrarre forze, energie, uomini e mezzi per dedicarsi ai mandanti esterni. L’onesta intellettuale e il necessario approccio causale, portano a dire che se mi trovo a costruire sulle macerie prodotte da certi magistrati è incomprensibile che vengano difesi quelli che le hanno causate criticando chi, con fatica, sta cercando di ricostruire tutto quanto è stato distrutto dandogli nuovo corpo, nuova forma.
La famiglia Borsellino, oramai, ha deciso di affidarsi alla verità storica ma questa interpella il ruolo della stampa, della società civile e quello dei politici. La vicenda Borsellino non è una faccenda che appartiene solo alle vittime primarie, ai figli, ma a tutti noi. Ritengo grave che la società civile sia, oggi, divisa in fazioni. Ho visto attacchi personali e frasi scritte, nei confronti di Fiammetta Borsellino, che definire vergognosi è poca cosa. Si è perso il senso di quello che è accaduto e di quello che questi ragazzi hanno subito. Sino a quando ci sarà un’antimafia così faziosa, preoccupata più di difendere questa o quella personalità piuttosto che “studiare le carte” per capire cosa sia esattamente successo, ho motivo di essere pessimista.
Quando si guarderà finalmente all’interno del “nido di vipere”?
Non siamo soddisfatti dalla recente sentenza sul depistaggio che, comunque, ha stabilito che due funzionari della Polizia di Stato hanno commesso la calunnia che ha dolosamente condotto le indagini verso altre direzioni creando così una falsa verità processuale. È chiaro che le verità processuali possono essere più o meno solide in ragione della professionalità di chi le confeziona. La verità storica, invece, è libera dai condizionamenti delle regole del processo perché va oltre la vita. Su questo confidiamo e proprio per questo ci chiediamo perché abbiamo dovuto aspettare trent’anni per poter leggere le audizioni del luglio 1992, scovati, lo voglio ricordare, dall’avvocato Basilio Milio all’interno del procedimento per corruzione che coinvolse Giammanco a seguito delle dichiarazione dei pentiti Marchese e Siino che ebbero a dire che il dossier “mafia-appalti” era un colabrodo e delle dichiarazioni di Li Pera che a Catania, al sostituto procuratore Felice Lima, racconta di come a Palermo fu gestito il dossier.
Il dossier fu preceduto da ben quattro informative interlocutorie che “uscivano” dalla Procura il giorno dopo la loro consegna da parte dei ROS Mori e De Donno. Nell’audizione della dottoressa Falcone si legge che, nel trigesimo della morte di Giovanni Falcone nella Chiesa di San Domenico, Borsellino prega Maria Falcone e Alfredo Morvillo, che volevano denunciare il fatto che Falcone era stato costretto a scappare dalla procura di Palermo a causa dell’ostracismo di Giammanco nei suoi confronti, di tacere perché aveva scoperto «cose gravissime».
Come familiari avevamo il diritto di conoscere subito queste informazioni devastanti e soprattutto avremmo potuto capire, immediatamente, perché Borsellino definì quella Procura «un nido di vipere» visto che è descritto compiutamente in questi verbali. È più che mai necessario leggere la testimonianza della dottoressa Sabatino, del dottor Ingroia, del dottor Patronaggio, del dottor Gozzo, della dottoressa Consiglio e, per contro, leggere le testimonianze dei magistrati “filo-Giammanco”, ossia del dottor Lo Forte, del dottor Pignatone e dello stesso dottor Scarpinato.
Il maresciallo Lombardo scopre che è arrivato il tritolo per Borsellino a Palermo
Il 28 giugno Borsellino apprende da Salvo Andò, allora ministro della Difesa, che era arrivato il tritolo per lui e non posso non ricordare il grande lavoro svolto dal maresciallo Lombardo che in prima persona raccoglie le informazioni da una sua fonte confidenziale nel carcere di Fossombrone e le affida alla catena di comando che, tramite Sinico e Subranni, sono comunicate a Borsellino. Sì, proprio Subranni, quello definito “punciuto” che però, in realtà si prodiga per tutelare Borsellino. La relazione di Subranni del 19 giugno indica Borsellino, Andò, Canale e Sinico come oggetto di un possibile attentato e rimanda alle autorità competenti la tutela di Borsellino e Andò. In realtà Borsellino è informato direttamente da Lombardo e Sinico il 15 giugno e, in quell’occasione, ebbe a dire che la sua priorità sarebbe stata la tutela della sua famiglia.
Il 29 giugno, invece, la sua rabbia esplode nei confronti di Giammanco perché, due giorni prima, la gestione di Mutolo, a lui negata perché non aveva la delega su Palermo, è affidata dallo stesso Giammanco a Lo Forte e a Gioacchino Natoli, applicato allora alla Procura di Trapani e questo risulta dall’audizione del dottor Ingroia del luglio 1992, ma noi l’abbiamo saputo trent’anni dopo.
Si è veramente voluto cercare fino in fondo la verità sulla morte di Borsellino?
Non possiamo dimenticare la riunione del 14 giugno, quella riunione in cui gli fu nascosto che il giorno prima Lo Forte e Scarpinato avevano chiesto l’archiviazione del dossier “mafia-appalti”. Uscendo da quella riunione, sempre sulla base delle audizioni del luglio 1992, Borsellino dice a Ingroia «Quei due non me la raccontano giusta».
È giunto il momento che la magistratura faccia autocritica, che riconosca i propri errori e assuma un atteggiamento di maggior umiltà e smetta di pensare che il danno procurato sia superabile da nuove indagini perché il tempo della verità processuale è terminata.
Non eravamo preparati alla faziosità dell’antimafia
Eravamo, come famiglia, pronti alla morte di nostro padre ma non eravamo pronti per tutto quanto è successo dopo. Non eravamo preparati alle critiche terribili e disumane che animano diverse pagine sui social di una sedicente antimafia così come non eravamo preparati allo sciacallaggio e alla follia del dopo, agli attacchi mediatici che sono stati operati nei confronti di Fiammetta. Non eravamo preparati alla difesa di persone che si pongono al di sopra della verità e addirittura dei figli di Paolo Borsellino, che non hanno altro interesse che non sia la ricerca della verità. Come famiglia dobbiamo dimostrare ai nostri figli che, nonostante quello che è successo, è necessario avere fiducia nello Stato e nelle sue istituzioni perché altrimenti saremo noi i primi a tradire l’eredità morale di Paolo Borsellino.
Chi ha convalidato quella scellerata menzogna deve farsi definitivamente da parte e cedere il passo ad altri. Nei giorni scorsi il dottor Gratteri ha dichiarato che, se fosse stato nominato Procuratore Nazionale, avrebbe affidato al dottor Di Matteo le indagini relative alla scomparsa dell’agenda rossa. Non posso non ricordare che Di Matteo avrebbe potuto e dovuto indagare sin dal 1995, dopo le dichiarazioni di Agnese Borsellino e della figlia Lucia che hanno confermato l’esistenza dell’agenda rossa e raccontato dell’atteggiamento del dottor La Barbera nei confronti di Lucia, mentre la prima indagine è datata 2006 ed è stata condotta da un altro magistrato. La magistratura deve trovare meccanismi d’incompatibilità per cui chi ha preso quel treno e l’ha perso non può più riprenderlo. Chiedo che quanti si siano occupati fino ad ora di questo scellerato iter processuale siano espunti perché il tempo ha creato una stratificazione pregiudiziale nella lettura degli atti che impedisce di vedere quello che non hanno visto per trent’anni. Servono magistrati giovani, non contaminati e che possano “leggere” con distacco quelle carte se si vuole creare una possibile ricostruzione processuale. Chi ha sbagliato, seppur in buona fede, non deve più occuparsi, direttamente o indirettamente, della strage di via d’Amelio.
Abbiamo dovuto combattere contro una narrazione unica deviata
È necessario che le informazioni relative alla vicenda storica come tale circolassero maggiormente. La stampa, purtroppo, è stata, tranne rari casi, particolarmente assente da questo processo e, se non fosse per la presenza di Radio Radicale, di questi processi non si sarebbe parlato. In più di un’occasione mi sono sentito dire da alcuni giornalisti «di questo non posso scrivere perché non mi pubblicherebbero» e questo è, come minimo, mortificante ma dimostra che non si è parlato del depistaggio perché si sarebbero dovute “toccare” persone che non si possono “toccare”. Come possiamo allora pretendere che il singolo cittadino della Guadagna o di Brancaccio non abbia un atteggiamento reverenziale nei confronti del capo mafia locale? In questi anni Ranucci, Purgatori e altri non mi hanno mai cercato ben sapendo del patrimonio di conoscenze che possiedo di questo lunghissimo iter processuale, conoscenze che avrebbero potuto consentire all’opinione pubblica di farsi un’idea che potesse andare a rompere quella narrazione unica di complotti, entità e altre fantasie.
Oggi è il 19 luglio 2022 e sono passati trent’anni da quella strage. La passerella mediatica di via d’Amelio è pronta. Ancora una volta sfileranno, con il loro fare compiacente, personaggi che hanno tradito sia Falcone sia Borsellino, personaggi che non hanno mai reso onore alla memoria né di Falcone tantomeno di Borsellino. Li giudicherà la Storia, quella Storia che non è vittima dei like sui social network o dell’audience e non è vittima dei protagonismi individuali. I movimenti antimafia, generatori di facile consenso, hanno oramai imboccato una strada scellerata che non gli permette più di separare le prove dalle suggestioni. Una strada scellerata che rischia di essere senza ritorno.
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