Giustizia
Obiezione di coscienza e legge 194: l’Italia non è ancora un paese per donne
La proposta di riforma della legge 194 presentata il 22 giugno dai Radicali dimostra come, ancora oggi, il diritto all’aborto sia messo in discussione da ostacoli posti in essere dalla legge stessa. Tra questi, il principale è l’obiezione di coscienza: la sproporzione tra medici obiettori e non, l’inadeguata formazione del personale e la presenza di associazioni ultracattoliche nei consultori fanno si che, di fatto, abortire in Italia sia quasi impossibile
La proposta dei Radicali: verso il superamento dell’obiezione di coscienza
Insieme ad altre associazioni e realtà femministe, il 22 giugno i Radicali hanno presentato in Corte di Cassazione la proposta di modifica alla legge 194/1978 che, adottata 45 anni fa, depenalizza il reato di aborto e garantisce tutela sociale alla maternità e all’interruzione volontaria di gravidanza (IVG). Definendo l’attuale testo di legge un provvedimento necessario, ma “frutto di un compromesso politico al ribasso”, i Radicali chiedono, insieme ad altre realtà femministe – tra le quali Libera di abortire – di ripensare la normativa ponendo al centro le donne e i loro diritti. Con il suo testo attuale, infatti, la legge 194 finisce per rilegare le donne “dentro un labirinto di ostacoli e gentili concessioni”: come spiega Giulia Crivellini, tesoriera dei Radicali, “la parola autodeterminazione non compare mai, i diritti riproduttivi non sono al centro, in tutti gli articoli si trova una connotazione negativa”.
Oltre a inserire novità a proposito di aborto farmacologico e terapeutico e a cancellare la cosiddetta “settimana di ripensamento”, oggi obbligatoria prima dell’ottenimento del certificato per accedere all’IVG, la proposta dei Radicali ruota intorno alla richiesta di superamento dell’obiezione di coscienza.
Prevista inizialmente per rispettare il pluralismo ideologico in un ambito ritenuto moralmente sensibile, essa ha finito per impedire un’effettiva attuazione della legge in Italia. Stando agli ultimi dati del Ministero della Salute, in Italia il tasso di obiezione sarebbe quasi del 70% (il che vuol dire che quasi 7 medici su 10 sono obiettori), con numerosi ospedali al 100% obiettori e Regioni in cui, di fatto, abortire risulta materialmente impossibile. Questa situazione, per i Radicali, è inaccettabile: “Oggi il diritto della donna non può essere minato da una coscienza individuale e il paragone con la leva militare (istituto per cui l’obiezione di coscienza fu inizialmente prevista, n.d.r.) non sussiste: l’obiezione è tutelata costituzionalmente quando è prevista come un obbligo. Fare ginecologia non è un obbligo”.
L’obiezione di coscienza di cui all’art. 9 della legge 194: la storia, l’evoluzione, i dati
L’art. 9 della legge 194/1978 stabilisce che il personale medico e sanitario non è tenuto a prendere parte alle procedure di interruzione volontaria di gravidanza qualora sia sollevata obiezione di coscienza. Come unica eccezione, il caso in cui, “data la particolarità delle circostanze”, l’intervento di medici e infermieri “è indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo”. In tutti gli altri casi, essa potrà essere sempre esercitata: dovranno essere le strutture sanitarie a garantire che, per ogni donna che scelga di abortire, vi sia adeguato accesso al servizio e alle relative cure.
Nata come eccezione volta a tutelare la coscienza individuale e, soprattutto, la libertà religiosa, l’obiezione di coscienza ha finito per divenire, nel corso degli anni, la regola. Come dimostrano i dati, dal 2005 al 2014 le quote di obiettori sono aumentate dal 59 al 71 per cento, e tali numeri non sono di fatto diminuiti negli anni a seguire.
Stando agli ultimi dati presentati dal Ministero della Salute (elaborati insieme a Istituto Superiore di Sanità, Istat, Regioni e Province autonome), infatti, il fenomeno dell’obiezione di coscienza nel 2020 avrebbe riguardato quasi il 70% dei ginecologi, circa il 45% degli anestesisti e il 36% del personale non medico. Ciò, a fronte di ampie variazioni regionali per tutte e tre le categorie. Variazioni tali da obbligare, in alcune realtà italiane, alcune donne desiderose di abortire a cercare un’altra Regione dove praticare l’intervento, a recarsi all’estero, o, nella peggiore delle ipotesi, a ricorrere all’aborto clandestino.
La situazione descritta, già di per sé critica, appare ancora più preoccupante se si considera che i dati riportati dal Ministero della Salute e presentati al Parlamento nel giugno 2022 non sarebbero in grado di fornire una fotografia esatta del quadro attuale, fornendo al contrario dati mal aggregati e decisamente al ribasso.
Stando all’indagine di Chiara Lalli, docente di Storia della Medicina, e Sonia Montegiove, giornalista e informatica (pubblicata per Fandango Libri nel 2022 con il titolo “Mai dati. Dati aperti (sulla 194). Perché sono nostri e perché ci servono per scegliere” e disponibile sul sito dell’Associazione Luca Coscioni) in Italia ci sono 72 ospedali con dall’80% al 100% di obiettori di coscienza, 22 ospedali e 4 consultori con il 100% di obiezione tra ginecologi, infermieri, anestesisti e OSS, e 18 ospedali con il 100% di ginecologi obiettori. Inoltre, 46 strutture hanno una percentuale di obiettori superiore all’80%, e in 11 Regioni c’è almeno un ospedale con il 100% di obiettori: si tratta di Abruzzo, Basilicata, Campania, Lombardia, Marche, Piemonte, Puglia, Sicilia, Toscana, Umbria, e Veneto. In particolare, in Puglia su 35 ospedali 8 sono con obiezione al 100 per cento, e nelle Marche, nelle due strutture di Fermo e Jesi, tutti i medici sono obiettori.
Oltre mettere in luce la reale condizione degli ospedali italiani, l’indagine di Lalli e Montegiove ha evidenziato poi una serie di criticità insite all’ambito di applicazione della legge 194.
Basandosi su richieste di accesso civico e generalizzato ai dati delle Regioni, infatti, l’indagine ha svelato come l’accesso all’aborto, nell’ipotesi fortuita in cui sia disponibile personale obiettore, rimanga comunque ostacolato da una serie di fattori. Tra le intervistate, molte donne e ragazze hanno dichiarato di essersi ritrovate in strutture non accoglienti e colpevolizzanti, spesso in mano ad associazioni ultracattoliche e pro-vita. Inoltre, è stata registrata una generale inadeguatezza nella preparazione del personale medico e sanitario, dovuto a un problema di formazione professionale. Come ha ricordato la ginecologa dell’Aied Marina Toschi nella sua intervista a L’Essenziale, in Italia “Manca formazione sul tema dell’IVG, ma anche sulla contraccezione. Questi argomenti sono ancora un grande tabù nelle università italiane, in particolare in quelle cattoliche. All’università s’insegna poco o niente come si usano i farmaci come il misoprostolo (un farmaco abortivo) o come s’inseriscono le spirali per la contraccezione, nonostante siano indicate dall’Organizzazione mondiale della salute (OMS) come i migliori contraccettivi”, continua. A riprova di questo, “le linee di indirizzo del ministero della salute che prevedono che le pillole abortive (RU486) siano somministrate nei consultori non sono state adottate da molte regioni, anche per mancanza di formazione degli operatori”.
L’accesso all’aborto: un diritto umano
La criticità del quadro italiano in tema di aborto è stata più volte oggetto di attenzione da parte della comunità internazionale. Nel 2016, il Consiglio d’Europa ha aspramente criticato l’Italia dichiarando che, nel nostro paese, l’istituto dell’obiezione di coscienza consiste di fatto in una violazione sia del diritto alla salute delle donne (tutelato dall’art. 32 della Costituzione) sia dei diritti dei lavoratori del personale sanitario italiano, privato della propria dignità.
Il Consiglio d’Europa ha dichiarato che in Italia la situazione “comporta gravi rischi per la salute di donne e ragazze italiane e straniere”, e ha ricordato come gli aborti illegali eseguiti sul suolo italiano potrebbero ammontare a non meno di 50.000.
Allo stesso modo, si è scagliato contro l’obiezione di coscienza l’Osservatorio internazionale Human Rights Watch, che ha dichiarato qualsiasi restrizione al diritto umano all’aborto, oltre a non portare alcuna diminuzione nel numero di aborti (incrementandone piuttosto la clandestinità), è contraria alla Dichiarazione universale sui diritti umani del 1948, ai Patti internazionali delle Nazioni Unite sui diritti civili, politici e sociali del 1966, alla Convenzione ONU contro la tortura e ai trattati internazionali a tutela dei diritti delle donne e dei bambini – tutti sottoscritti dal nostro paese.
Nonostante queste considerazioni e sebbene, stando all’ultimo sondaggio IPSOS, il 73% degli italiani riconosca e supporti questo diritto, la realtà dei fatti ci dimostra come, a 45 anni dall’adozione della legge 194, permangano numerose barriere per accedere all’aborto nel nostro paese che, in alcune regioni, resta un diritto garantito solamente sulla carta. L’Italia, insomma, non è ancora un paese per donne: c’è solo da sperare che lo diventi il più presto possibile.
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